Il carcere ha fiaccato pure «Patatone». Costantino Di Silvio aveva 27 anni quando per l’omicidio di Fabio Buonamano, detto Bistecca, venne messo dietro le sbarre. E non era la prima esperienza del genere per lui, che già da minorenne aveva avuto grane con la giustizia.
Un esponente della famiglia nomade con l’ambizione di capo, un giovane dalla pistola facile, deciso a vendicare la morte del padre Ferdinando, fatto saltare in aria a Capoportiere nell’estate 2003 mentre accendeva la propria auto. Ora, dopo sei anni trascorsi in una cella e raggiunto da un cumulo di pene che non gli consentirà di lasciare Rebibbia prima del 15 marzo 2035, senza contare altri processi a suo carico ancora in corso, «Patatone» sembra aver perso tanto l’aria da boss quanto la voglia di sfidare lo Stato. Si è messo a studiare, si è fatto crescere una barba da guru, fa teatro e, presa carta e penna, ha anche scritto di sperare in futuro di potersi reintegrare nella società.
In una lettera, che ha intitolato «Patatone lo zingaro», Costantino Di Silvio precisa, parlando di sé in terza persona, che quello che era ritenuto «uno degli esponenti di spicco della criminalità pontina», uscirà da Rebibbia ultracinquantenne.
«Ora – racconta – si sta dedicando allo studio e a settembre comincerà a frequentare l’istituto tecnico commerciale. Chissà che un giorno possa così reinserirsi nella società».
Infine un pensiero ai suoi avvocati, Carlo Alberto Melegari, ora scomparso, e il figlio, Luca Amedeo Melegari, che continua ad assisterlo. «Patatone» non sembra parlare più di uccisioni da programmare e disegni criminosi da portare a termine con ferocia, come spesso è stato intercettato dagli investigatori.
Si è preso il diploma di scuola media, fa teatro e sa che metà della sua vita la trascorrerà in un carcere.
Qualcosa del genere, una sorta di metamorfosi da espiazione, era accadura anche al fratello di Costantino, Antonio detto «Sapurò», finito su una sedia a rotelle dopo un conflitto a fuoco con un «vigilante» davanti ad una discoteca di Latina: forse per l’invalidità che non gli consentiva più di essere lo stesso di prima, forse per un sincero ravvedimento, Sapurò si era affidato ai suggerimenti di assistenti sociali e volontari che lo avevano introdotto ad un percorso di riscatto personale e reinserimento sociale che era andato avanti per qualche anno, non senza risultati significativi.
Due fratelli e una storia che si sovrappone.