Caro Enrico,

era da un po’ che volevo scriverti e finalmente credo di trovare le parole giuste per parlare della nostra Latina, che ci ha visti crescere insieme (ricordi il Liceo Classico e le nostre scaramucce politiche? Altri tempi). Qualcosa che rivolgo anche agli amici di “Latina bene comune”, alla loro sensibilità verso il dibattito e la pratica culturale.

Ho avuto già modo di dirti personalmente che in questa tornata elettorale si apre una grande opportunità, che tu comprendi anche meglio di me: mandare a casa questa destra pontina, che per ben due volte in pochi anni, pur avendo la maggioranza dei consiglieri, ha di fatto rinunciato a prendersi cura del territorio, a governare la città.

E ora? Forse sarà finalmente possibile che almeno una parte della sinistra e il mondo moderato e cattolico, possano insieme rappresentare un’alternativa politica, qualcosa che è accaduto solo molti anni fa con la (diversa) stagione del Centro-sinistra.

Latina deve risollevarsi. Da una condizione storica e da una situazione presente.

La condizione storica passa per l’eredità fascista e per la sudditanza a Roma, due fattori che molto hanno inciso sulle sorti della città. Il presente passa anche per la presenza ambigua e ricattatoria della malavita organizzata, che controlla parte del tessuto economico locale, con il silenzio-assenso di chi finora ci ha governato.

E ora vengo alla cultura, qualcosa che per ovvi motivi sento più vicina e sulla quale mi sbilancio un po’, lanciando qualche suggestione e senza dimenticare gli amici che alle cose belle di questa nostra città hanno dato e danno ancora tanto: Riccardo Cerocchi e il Campus internazionale di Musica, Giorgio Maulucci, Antonio Pennacchi, Claudio Paradiso, Lina Bernardi, Enzo Provenzano, Nino Bernardini, Clemente Pernarella, Renato Chiocca, Giancarlo Loffarelli, Mary Drigo, Massimo Ferrari, Francesco Tetro, Vincenzo Scozzarella, Fabio D’Achille, Massimo Rosolini..

Il fatto che negli ultimi anni a Latina non ci sia stato un assessorato alla cultura, la dice lunga su quello che passa per la testa di buona parte dei nostri ex amministratori.

Ora credo sia arrivato il momento di rilanciare un progetto, che non sia, per così dire, solo sulla carta e che anzitutto non favorisca sterili elargizioni di denaro pubblico.

La questione è relativamente semplice e parte da un quasi slogan forgiato dal mai dimenticato Renato Nicolini nei primi 80, in una pubblicazione che vide coinvolto il nostro Tonino Mirabella, che anche molto ha dato a Latina: “Città senza mura”.

Latina è una di queste città senza mura del nostro bellissimo e mal compreso territorio, che ho provato a raccontare con i miei film; diversa dalle tante città turrite che costellano l’Italia. E di questo se ne è sempre un po’ vergognata. Sbagliando.

Oggi città senza mura può significare apertura, disponibilità, dialogo, in un mondo che, invece, si sta prendendo la triste responsabilità di alzare nuovi muri.

Latina-Italia-Europa, invece. Perché qui da noi sono passati, molto avanti alle bonifiche pontine, lo Stato Pontificio con i primi migranti nostrani, poi nascosti dal fascismo per dar spazio ai nuovi arrivati: nei borghi e nelle città nuove (che Mussolini non aveva neanche messo in programma) veneti, friulani, emiliani a “dar lustro” al regime. E ancora, la guerra con lo sbarco degli americani nella vicina Anzio. E poi gli intellettuali che andarono a “colonizzare” i lidi di Sabaudia, da Pasolini a Moravia, dai Bertolucci a Enzo Siciliano e Dacia Maraini… E ancora, le fabbriche del boom economico (compresa una centrale nucleare, oggi monito per tutti), con le migliaia di operai provenienti dal Sud; e la crisi di un modello per molti versi sbagliato che ne è seguito con la fine della Cassa per il Mezzogiorno. Un mondo finanche “cantato” da quel maestro del racconto popolare che è il nostro Pennacchi in Mammouth. E, infine, gli immigrati, tanti, la maggior parte dei quali lavorano, talvolta al limite della schiavitù, nelle campagne; senza dimenticare le migliaia di persone che per decenni dai paesi dell’Est sono transitate per il nostro ex campo profughi.

Insomma, da noi è passata la storia recente d’Italia e per certi versi anche d’Europa e del mondo, con le sue miserie e con le sue nobiltà. E quasi non ce ne siamo accorti.

Ecco. E’ da questo patrimonio umano che rilancio l’idea di un museo diffuso, di cui avevo già parlato in un’intervista a un giornale locale qualche mese fa.

Cos’è un museo diffuso? Per me è un insieme di luoghi-simbolo che raccolgono la storia di una città e del territorio circostante in un’unica rete affettiva e riflessiva. Ma è difficile che Latina trovi sé stessa se non impara ad amarsi, a “tirarsela” un po’.

Ora in quest’epoca globalizzata l’assenza storica di mura rappresenta una grande opportunità. Significa spazi aperti, proprio come quelli della nostra piccola pianura. E allora perché non ricordare e condividere tutto ciò? Perché non un museo “critico” del fascismo e della palude redenta, rafforzato rispetto a quello che c’è già? E perché non uno spazio che ci ricordi, nelle aree tra Borgo Montello e Tre cancelli, (oltre a Santa Maria Goretti e Satriicum) che ai tempi dello Stato Pontificio qui c’era il granaio del Lazio? E perché non pensare tra Aprilia e Latina a un museo della nostra recente storia industriale, che coinvolgerebbe tante interessanti fabbriche chiuse e abbandonate, compresa la centrale nucleare di Borgo Sabotino, oggi in dismissione? E, ancora, perché non un Museo del mondo contadino tra Latina e Pontinia? E, andando verso Sabaudia, uno spazio d’incontro dedicato ai tanti personaggi della cultura passati dalle nostre parti, magari con annesso un festival del cinema finalmente degno di questo nome? E infine, tornando a Latina, perché non un Museo dei migranti, che ricordi i migliaia di profughi venuti dall’Est; magari avvicinando le loro storie a quelle dei nostri immigrati del Nord Italia giunti fino a qui durante il fascismo, ai meridionali arrivati negli anni 60 e anche ai nuovi che numerosi arrivano oggi dall’Asia e dall’Africa?

Sì, un museo diffuso lungo tutto il territorio pontino dei migranti, dei contadini, degli operai, degli intellettuali, che ci aiuti a conoscere la nostra storia in relazione con l’esterno e non attraverso gabbie chiuse. Spazi aperti. Spazi rivolti a tutti noi.

So perfettamente che c’è troppa utopia in questa idea. Ma non è proprio l’utopia che, infine, fa avanzare il mondo? Potremmo parlare di utopie glocal, magari, più alla portata di tutti noi. Ma anche di politica dei piccoli passi. Piccoli grandi passi. Proprio cominciando da una consapevolezza collettiva: quella di vivere su un territorio ricco di storie, in particolare del 900, ma non solo riconducibile al passato, perché qui l’assenza di mura costringe a prendere le correnti esterne, a contaminarsi, a ibridarsi. Sempre. E trasmettere tutto questo alle nuove generazioni, lasciando dei segni concreti laddove la storia è passata. La storia con la S maiuscola che incontra quella con la s minuscola. La storia di tutti noi.

Gianfranco Pannone, 23 aprile 2016Â