Una causa infinita per l’acquisto di una casa con garage a Terracina. Dalla compravendita, avvenuta nel 1975, è sorta una serie di questioni, con tanto di contrastanti pronunce giudiziarie che hanno trasferito il bene dall’uno all’altro, eredi compresi, fino all’ultima parola decretata dalla Corte di Cassazione. L’acquisto si è così alla fine concretizzato. La storia inizia nel novembre del 1975 quando le parti, entrambi frusinati, pattuiscono la vendita di un appartamento con autorimessa a Terracina. Nel 1980 il tribunale di Frosinone dispone il trasferimento coattivo del bene all’acquirente, dietro pagamento del residuo di sette milioni di lire. Il venditore, nel 1994, si rivolge al tribunale di Roma per chiedere di tornare in possesso del bene. Dieci anni dopo, nel 2004, il tribunale di Roma dichiara la risoluzione del contratto preliminare e dispone il ritrasferimento dei beni al venditore, previa restituzione dell’acconto di 12 milioni di lire. La storia prosegue in appello e siamo nel 2011 quando la decisione di primo grado viene capovolta. Allora l’erede del venditore decide di proporre ricorso per Cassazione per ottenere l’annullamento della decisione di secondo grado. La Cassazione nel confermare la pronuncia d’appello ricorda che l’acquirente «aveva manifestato il serio proposito di dare esecuzione a quanto disposto giudizialmente; che per conto il venditore non aveva dimostrato di aver liberato l’immobile dalle iscrizioni pregiudizievoli che ancora gravavano su di esso». In pratica le «risultanze delle visure ipotecarie documentavano l’inadempimento alle specifiche prescrizioni giudiziali». La parte venditrice lamentava che «contrariamente a quanto disposto dal tribunale di Frosinone, 7 milioni del saldo prezzo non erano stati versati su libretto bancario a nome del venditore, ma su un comune libretto al portatore», cui era stato aggiunto il nome del venditore e rimasto nella disponibilità dell’acquirente. Un inadempimento - ha insistito nel ricorso la parte venditrice - che mai si sarebbe potuto considerare di «scarsa importanza». Tuttavia la Cassazione ha ribadito l’orientamento della Corte d’appello che «ha reputato molto più grave il comportamento negoziale del venditore che era tenuto a liberare il bene dai pesi che lo gravavano». E, in mancanza di tale adempimento è «insignificante» che la somma offerta fosse stata incisa con prelievi sul libretto. Da qui il rigetto del ricorso e condanna alle spese, per 4mila euro.