Un femminile tradito, e il gesto estremo di uccidere i propri figli "nel tentativo di rovesciare un sistema valoriale tutto al maschile". Clara Galante torna ad indossare i panni di Medea in una "esecuzione di assolo" che la vede interpretare tutti i personaggi nel melologo nato da un'idea registica di Alessio Pizzech. Non deve essere facile dare voce al punto di vista della figlia di Eeta, con i suoi lati più bui e sommersi. Sì, Medea, uno dei personaggi più controversi e celebri della mitologia greca. Eppure, l'attrice pontina ha più volte dialogato con lei. In una nuova forma torna a rappresentarla grzie a questo atto unico scritto nel 1775 su libretto del drammaturgo F.W.Gotter. È una tragedia messa in musica da Jiri Antonin Benda, in cui note e parola si incontrano, una mise en espace abitata da tante voci che delineano un'universalità di sentimenti e ancora una volta il desiderio di carpire una lezione, suscitare una riflessione che mai come oggi risulta attuale.

Abbiamo avvicinato Clara Galante a due giorni dalla rappresentazione che il 13 maggio la vedrà grande protagonista insieme alla Direttrice di coro e orchestra, talentuosa e stimata compositrice e pianista Cinzia Pennesi, presso la sede universitaria napoletana del Complesso dei SS. Marcellino e Festo, su invito dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Aleggia sul melologo l'impossibilità di amare e di essere amati, un dolore che annienta le distanze tra l'antichità e i tempi moderni, fino a farsi ponte tra "l'antico rito greco e la contemporaneità".

Clara, Medea è un personaggio che fa parte della tua carriera e in cui sei entrata moltissime volte. Come è cambiata nel tempo? E che cosa ti dice di nuovo ogni volta?
«Il potere è in crisi, le relazioni sono in crisi, i legami sono in crisi, e anche gli uomini purtroppo lo sono e uccidono i propri figli. Viviamo in un mondo ‘capovolto', ma i Greci già sapevano! È questo che rende la tragedia greca sempre attuale. Quei concetti si ripetono e tuttora reggono la ‘tragedia' in piedi. Questa Medea porta con sé riflessioni moderne. Nello specifico, interpreto un melologo: uno spettacolo cioè trasversale in cui c'è una dialettica continua. Sono sola ma è come se non lo fossi. Ritmo, parola, melodia, corpo, voce, senso del testo, tutto è con me. Io recito la tragedia, ma anche la musica; e la bravissima Cinzia Pennesi al pianoforte è come se suonasse le mie parole. Noi due insieme, siamo la voce di Medea. Ho a cuore sottolineare quanto, da sempre, io abbia desiderato fare un tipo di teatro in cui la musica avesse una presenza importante. Il mio essere artista di oggi è il frutto di un percorso molto lungo, e in questo percorso si costituisce già l'obiettivo del mestiere che faccio. Mi spiego meglio, tornando a Medea: l'anno scorso sul palco del Bellini ero Giuditta Pasta per la Norma diretta da Fabrizio Maria Carminati, con l'intensa regia di Davide Livermore. La Norma di Bellini non è altro che Medea, si ispira al suo mito. In tre ore di spettacolo, lo scorso settembre, ho recitato il ruolo solo con lo sguardo, utilizzando gli occhi e tutta la mia energia. In silenzio. Oggi lascio parlare Medea, con tutta la voce di cui dispongo ma nutrita di quel silenzio che ora invece urlerà. È fondamentale la continuità di un lavoro».

Un urlo liberatorio?
«A proposito di questo urlo mi vengono in mente i versi con i quali Pasolini fa finire uno dei suoi film, Teorema. Li trovo molto rappresentativi, quindi permettimi di ripeterli: "È impossibile dire che razza di urlo sia il mio: è vero che è terribile tanto da sfigurarmi i lineamenti rendendoli simili alle fauci di una bestia ma è anche, in qualche modo, gioioso, tanto da ridurmi come un bambino. È un urlo fatto per invocare l'attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo. È un urlo che vuole far sapere, in questo luogo disabitato, che io esisto, oppure, che non soltanto esisto, ma che so. È un urlo in cui in fondo all'ansia si sente qualche vile accento di speranza; oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda, dentro a cui risuona, pura, la disperazione. Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa questo mio urlo voglia significare, esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine"».

Quando Medea troverà pace, Clara Galante?
«Purtroppo non ho risposta, non in questi nostri tempi».

Non cambierà mai Medea?
«La consistenza dei versi di Pasolini racchiudono la mia visione del personaggio che interpreto e sia di quell'urlo maturato da quel silenzio di cui dicevo, da quella sottrazione vissuta. Lei non è cambiata, ma io sì. In questi anni, nei giorni, nella quotidianità, l'arte mi ha sempre aiutata. Anche dopo la pandemia che ha provocato tanta paura, non mi sento né inaridita, né incattivita. Continuo a cercare nel fango i fiori di loto. Il mio mestiere è un modo di vivere. Una volta pensavo che i miei tormenti potessero nutrire i miei personaggi, adesso è il contrario. Sono i loro tormenti a indicarmi la strada. È un gioco sopraffino di equilibrio».

Ancora il senso del percorso lavorativo. Il fine qual è?
«Clara Galante artista non si muove più portando avanti se stessa e il suo ego, ma l'ego oggi è capace di mettersi al servizio. E il fine è quella spinta, quella volontà, quel tentativo, quella speranza di avvicinarsi sempre più a una verità».