Dopo sei anni di interdizione completa, cercare di mettere piede all'interno del teatro D'Annunzio era diventata una specie di ossessione, quasi una necessità fisica sostenuta da una curiosità forte, soprattutto dopo i ripetuti annunci di una imminente riapertura.
Se il teatro sta per riaprire i battenti, significa che i lavori di ristrutturazione e adeguamento alla normativa antincendio sono ultimati, o quantomeno alle battute finali. Questione di rifiniture o giù di lì. Vedere per credere, ma soprattutto vedere per rendersi conto ed eventualmente per scrivere. Ed eccoci qua.
Non diremo mai quando e nemmeno come, ma insieme a un collega armato di macchina fotografica ce l'abbiamo fatta; non c'erano da eludere controlli né sistemi di sorveglianza, perché sembra non ce ne siano, e senza bisogno di forzare o scardinare alcunché, è bastato infilarsi in un varco per violare il cantiere più estenuante e complicato nell'intera storia della città di Latina. Una città costruita in sei mesi, che si vede costretta oggi ad assistere all'interminabile via crucis di sei lunghi anni per avere ragione di un nullaosta che soltanto i vigili del fuoco possono rilasciare.
Se non ci si lascia trarre in inganno dalla polvere e dal disordine che ogni cantiere che si rispetti offre alla vista, effettivamente l'impressione è che i lavori siano più o meno ultimati.
Lo si capisce dal fatto che il boccascena sul palco del D'Annunzio è stato ridimensionato per fare spazio all'installazione di pareti laterali ignifughe con relative vie d'uscita con porte antipanico; lo si capisce dal rifacimento completo del soffitto della sala, una volta completamente in legno di ciliegio per favorire l'acustica e adesso sovrastata da una orribile controsoffittatura messa in opera da una mano poco felice (nessuno si offenda); lo si capisce dalla distanza ridotta al limite dell'insostenibilità nelle ultime tre file di poltrone della galleria, che stavolta merita a pieno titolo l'appellativo comune di piccionaia; lo si capisce dallo stress subito dal parquet in tutti gli angoli della platea; lo si capisce dall'usura di quelle che fino a qualche tempo fa sono state le magnifiche sedute firmate dalla prestigiosa casa Frau.
Erano davvero queste le insindacabili prescrizioni per mettersi in ordine con le norme antincendio e di sicurezza? Bisognava ridurre l'apertura del boccascena, che sembra metterà la parola fine sulla possibilità di ospitare di nuovo sul palco del D'Annunzio un'orchestra al completo, oppure un allestimento calibrato sulle misure standard di tutti i teatri che si rispettino?
Bisognava stringere le ultime file della galleria per farci stare gli spettatori come delle sardine in scatola, oppure si poteva rinunciare a una dozzina di posti?
Si doveva davvero buttare in un angolo, all'aperto, l'intera struttura del bellissimo soffitto in legno per lasciare il posto al cartongesso? Quello non brucia, si dirà, ma allora perché non è stato tolto anche il rivestimento delle pareti, anche quello in legno di ciliegio?
E poi la domanda che viene spontanea: ma nei teatri realizzati qualche secolo fa, dalla Fenice al Petruzzelli, dal Massimo al San Carlo, come hanno fatto ad ottenere il nullaosta che il D'Annunzio ancora non ha?