Due ore e mezza di battaglia campale attorno alla contestazione di aver incaricato un clan per l'attacchinaggio elettorale e per il voto di scambio. La prima vera udienza del processo «Scheggia» diventa lo spartiacque tra quello che la città, la sua provincia, sono state nella terribile primavera del 2016 e ciò da cui, forse, si salveranno.
L'odiato cugino
Tutti e cinque gli imputati erano in aula ieri mattina, in presenza l'ex consigliera regionale Gina Cetrone e l'ex marito Umberto Pagliaroli, collegati dal carcere Armando Di Silvio e i figli Samuele e Gianluca ad ascoltare il teste chiave, sempre lui, Renato Pugliese, l'odiato pentito della famiglia. Il collaboratore di giustizia parla spedito da una località protetta e alle domande del pubblico ministero Luigia Spinelli risponde ricostruendo un mondo che ormai molti hanno imparato a conoscere ma che ripetuto lì, nell'aula della Corte d'Assise del Tribunale di Latina, fa comunque un certo effetto. Pugliese ribadisce di aver conosciuto la Cetrone e di essere stato nel suo studio di Terracina durante la campagna elettorale per le comunali, si ricorda il nome della lista civica «Si cambia» e di un candidato in particolare, Gianni Tramentozzi. «Era il direttore del carcere e quindi lo conoscevamo». In realtà era una guardia carceraria e nel 2018 è stato arrestato nell'ambito dell'inchiesta per la corruzione in via Aspromonte.
La paura
Il pubblico ministero insiste molto nel chiedere i motivi per i quali Pugliese si è pentito: «La strada non faceva più per me e avevo paura di essere ucciso come il mio amico Massimiliano Moro. Ormai davo fastidio, sapevo troppe cose. La prima volta che sono finito dentro a Casal del Marmo avevo 15 anni, insieme a Pasquale Giuseppe Di Silvio. Non ero uno qualunque, sapevo il fatto mio, ero comunque il figlio di Costantino Cha Cha. Non dico per vantarmi ma non ero mica l'ultimo arrivato». Poi fornisce una valanga di informazioni sul mondo zingaro, violento e potente, di Latina, alcune persino ultronee rispetto al capo di imputazione che regge il processo. Ciò che conta riguarda l'attività svolta in campagna elettorale. Conferma di essere stato portato a Terracina da Agostino Riccardo e che lì c'è stato prima un confronto serrato con gli altri attacchini della lista di Procaccini, per poi trovare un accordo «perché quando dicevamo che noi eravamo i Di Silvio non c'era niente da fare, tutti si arrendevano».
L'obiettivo era quello di coprire il maggior numero di spazi possibili, inclusi quelli abusivi. «Il 70 per cento a noi, cioè a Gina Cetrone, e il resto agli altri, perché il marito ci aveva detto che voleva vedere solo i suoi manifesti sul posto».
Manifestopoli
Per descrivere il coinvolgimento diretto di Armando Di Silvio il pentito dice che «Agostino Riccardo offrì il business della politica ad Armando perché lui conosceva gente e poi in quel momento c'era spazio. Infatti Francesco Viola, cognato dei Travali, che si era sempre occupato di politica era in carcere». Parla del compenso: 12mila euro per la campagna elettorale di Gina Cetrone; ma sottolinea che lui non ha avuto tutta la sua parte, forse perché Riccardo fece il furbo e si tenne una «stecca». Dove venivano prese tutte queste decisioni? Renato Pugliese indica Campo Boario, il feudo dei Di Silvio, come la piattaforma decisionale, luogo impenetrabile a chiunque, persino ai Ciarelli, tanto che per l'affitto di un appartamento si sfiorò la guerriglia.