La lettura dei fatti contestati nell'inchiesta Movida viene accompagnata nell'ordinanza di custodia cautelare da un riassunto degli ultimi vent'anni di criminalità nel segno dei rom.

La scintilla che ha messo in moto la cosiddetta «guerra criminale pontina» è la stessa che la mattina del 9 luglio 2003, sul lungomare di Capoportiere a Latina, aveva fatto brillare almeno due etti di esplosivo piazzati sotto il sedile dell'auto in uso a Ferdinando Di Silvio, il 42enne rom che sarebbe morto un paio d'ore dopo l'esplosione che gli aveva devastato il corpo. L'automobile saltata in aria apparteneva al cognato di Ferdinando Di Silvio, Luca Troiani, che il 21 giugno 2003, venti giorni prima dell'attentato al Lido, era rimasto gravemente ferito nel corso di una sparatoria in via Villafranca.

Più correttamente, l'origine della guerra criminale a Latina va ascritta a quell'episodio, perché la bomba nell'auto su cui sedeva Ferdinando Di Silvio era stata piazzata per sedare la sua dichiarata e sbandierata ansia di vendetta per il trattamento riservato al cognato. Per sette lunghi anni, benché i Di Silvio avessero sempre ritenuto di sapere chi fosse il responsabile dell'attentato sul lungomare, non c'era mai stato alcun tentativo di reazione né di vendetta contro i presunti responsabili della morte di Ferdinando Di Silvio, ma i suoi figli, raggiunta l'età adulta, aspettavano il momento e l'occasione propizia per «onorare» la memoria del padre. E quando la mattina del 25 gennaio 2010 il leader indiscusso dell'altra famiglia rom di Latina, Carmine Ciarelli, era stato raggiunto da sette proiettili calibro 9 in un tentativo di omicidio davanti al bar di via Pantanaccio in cui era solito consumare la colazione, la macchina della vendetta si era subito messa in moto.

Quella stessa sera, Massimiliano Moro, probabilmente ritenuto il mandante dell'agguato subito da Carmine Ciarelli, veniva ucciso nella sua abitazione nel quartiere Q5. E il giorno seguente, 26 gennaio, veniva ucciso Fabio Buonamano, probabilmente perché ritenuto coinvolto nell'attentato del 9 luglio 2003.

A uccidere Fabio Buonamano erano stati il fratello e il figlio di Ferdinando Di Silvio, che avevano deciso di aprire le danze di una lunga scia di sangue che avrebbe dovuto lavare l'onta subita con la morte di Ferdinando e dimostrare a tutti che il controllo della città era saldamente in mano all'asse rom Ciarelli-Di Silvio. Un'alleanza che non si sarebbe fermata nemmeno dopo l'arresto di Romolo e «Patatone» Di Silvio per l'omicidio Buonamano.

Il 6 marzo 2010 qualcuno cerca di uccidere Fabrizio Marchetto, che gli zingari ritengono coinvolto nel ferimento di Troiani e nell'attentato al mare.  Il 7 aprile 2010 viene gambizzato Alessandro Zof, presumibilmente a causa di contrasti insorti con i Di Silvio in carcere durante un periodo di detenzione. Il 22 maggio 2010 davanti a un bar del quartiere Gionchetto vengono feriti a colpi di pistola Silvio Savazzi e Maurizio Santucci, ritenuti vicini a Fabio Buonamano.  Il 29 maggio 2010, nel corso di un tentato omicidio, rimane ferito Francesco Alessandro Annoni, ritenuto vicino al gruppo avverso al clan delle due famiglie rom di Latina. Il 6 giugno i carabinieri sventano sul lungomare di Latina un'azione per eliminare Gianfranco Fiori, ritenuto l'esecutore materiale del ferimento di Carmine Ciarelli avvenuto il 25 gennaio. Un mese più tardi, un altro commando stava cercando di fare la stessa cosa a Cervinia, dove nel frattempo Gianfranco Fiori aveva cercato riparo.

Da quegli episodi sarebbero nate, una dopo l'altra, le indagini che avrebbero smantellato il sodalizio tra i Di Silvio e i Ciarelli, e poi anche scardinato le due famiglie al loro interno: prima Caronte, poi Andromeda, e ancora Lince, fino alla più recente Alba Pontina. Ieri è stata la volta di Movida. E malgrado i colpi inferti dalle inchieste e dai processi, dalle condanne e dalle detenzioni, la minaccia rom torna sempre a farsi avanti con una forza rigeneratrice che pare inarrestabile. Una minaccia che ogni volta, come anche in quest'ultimo caso, viene riassunta nelle ordinanze che trascinano in carcere pezzi del clan nomade che ha guadagnato sul campo il riconoscimento della modalità mafiosa per le imprese di cui si rende protagonista.