Prima ancora di ricorrere al sostegno dei pentiti, gli inquirenti riconoscono il metodo mafioso analizzando le gesta dei Di Silvio. Il ricorso a un potere corale, quello di una famiglia-clan, è sintomatico proprio delle organizzazioni criminali più strutturate che riescono a far valere la forza della sopraffazione, senza che la gente conosca personalmente l'autore della ritorsione. È sufficiente evocare l'intervento dei Di Silvio per convincere qualcuno ad accettare la protezione degli zingari in cambio di soldi o persino assoggettare uno spacciatore al loro controllo. E gli episodi contestati con l'inchiesta Movida Latina fanno emergere proprio questo, una volta per tutte.

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma non ha dubbi, i reati contestati descrivono «l'utilizzo di un metodo tipicamente riconducibile alle mafie tradizionalmente intese, e caratterizzato in primo luogo dalla prospettazione di ogni ritorsione alle vittime in chiave "plurale", dal riferimento esplicito al clan quale segno di appartenenza al sodalizio, per esaltare l'efficacia intimidatoria delle condotte ed al riferimento ai gravi precedenti giudiziari degli appartenenti al gruppo; dall'affermazione del potere di imporre "il pizzo" in quanto derivante dal controllo del territorio». O meglio, l'aggravante del metodo mafioso nella commissione delle estorsioni, scrive il pubblico ministero, consiste nel «richiamare alla mente della vittima la condotta comunemente ritenuta propria di chi appartenga ad un'organizzazione di tipo mafioso, non essendo necessaria la dimostrazione dell'esistenza di un'associazione».

Fatto sta che anche gli altri sodalizi criminali della città riconoscevano il potere di un'organizzazione superiore alla famiglia Di Silvio capeggiata da Giuseppe Romolo cui fanno riferimento gli ultimi arrestati, come i figli Antonio "Patatino" e Ferdinando "Prosciutto", il fratello Costantino detto Costanzo, il nipote Ferdinando "Pescio" a sua volta figlio di Costantino "Patatone". Come testimonia la loro facilità di assoggettare al proprio controllo uno spacciatore legato ai sodalizi concorrenti. A farne le spese fu Renato Pugliese, come racconta lui stesso ai magistrati dell'Antimafia una volta diventato collaboratore di giustizia.
Lo spacci