Gesti e ritualità che si ripetono, da una famiglia all'altra, contribuiscono a considerare i Di Silvio un clan, un'entità legata da vincoli parentali che si supporta grazie al mutuo soccorso dei propri appartenenti. E così unita alimenta la forza di un cognome che ha saputo ritagliarsi uno spazio importante nella malavita latinense, rafforzato persino dalle inchieste che ne hanno decimato i ranghi, perché hanno descritto la ferocia dei propri appartenenti attraverso l'escalation di vendette sanguinarie del 2010.
Le ritualità delle famiglie emergono grazie ai pentiti, che hanno descritto il modo in cui i capi di ogni singolo gruppo gestisse figli, nipoti, generi e comprimari. È incredibile come la gestione caratteristica del sodalizio di Giuseppe Romolo, sia identica a quella di Armando Lallà, suo cugino di primo grado, già emersa due anni fa con l'inchiesta Alba Pontina. A descrivere proprio Romolo, con le dichiarazioni finite nell'ultima operazione Movida Latina, è uno dei nuovi collaboratori di giustizia, vale a dire Maurizio Zuppardo, ma c'è da dire che si rifesce a situazioni datate, visto che il capo famiglia è tornato in carcere da più di due anni per scontare la pena del processo Caronte, principalmente il concorso nell'omicidio di Fabio Buonamano. «Sia i figli che i nipoti di Romolo dovevano avere il suo permesso prima di intraprendere qualsiasi azione - rivela il pentito durante l'interrogatorio del 20 novembre 2019 - Veniva quindi fatta una riunione a casa di Romoletto nella quale gli veniva rappresentato il caso che poteva riguardare o un recupero crediti o lo spaccio e un'azione di ritorsione; veniva esposto tutto il fatto e lui decideva se procedere o no e stabiliva anche l'importo da chiedere alle vittime, la suddivisione dell'incasso, ogni cosa. Nessuno poteva fare azioni o ritorsioni o prendere zone di spaccio senza il suo permesso».
Informazioni che Zuppardo non rivela per interposta persona: «Ho partecipato qualche volta per caso a qualcuna di queste riunioni. Romoletto mi ha sempre trattato come un figlio». E poi aggiunge: «Alle riunioni partecipavano tutti solo nel caso in cui vi fossero questioni importanti su cui prendere decisioni... anche per la suddivisione delle piazze di spaccio Romoletto convocava tutti nel caso in cui bisognava fare delle modifiche nella gestione; in sostanza solo su questioni più importanti o strategiche per la famiglia alle riunioni partecipavano tutti, e la decisione la prendeva Romolo da solo e gli altri dovevano adeguarsi».
Ritualità confermata anche da un altro pentito, Renato Pugliese: «Romolo punta sulla tradizione degli zingari, nel senso che durante la sua detenzione le decisioni spettano al primo figlio, poi al secondo e infine ai generi». Mentre l'altro collaboratore, Agostino Riccardo, ne descrive lo spessore criminale: «Romolo Di Silvio è una persona spietata in quanto molto incline alla violenza, torturava le persone per debiti di droga e per estorsioni... per parlare con Romolo devi avere un grande spessore criminale».
Prima ancora di ricorrere al sostegno dei pentiti, gli inquirenti riconoscono il metodo mafioso analizzando le gesta dei Di Silvio. Il ricorso a un potere corale, quello di una famiglia-clan, è sintomatico proprio delle organizzazioni criminali più strutturate che riescono a far valere la forza della sopraffazione, senza che la gente conosca personalmente l'autore della ritorsione. È sufficiente evocare l'intervento dei Di Silvio per convincere qualcuno ad accettare la protezione degli zingari in cambio di soldi o persino assoggettare uno spacciatore al loro controllo. E gli episodi contestati con l'inchiesta Movida Latina fanno emergere proprio questo, una volta per tutte.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma non ha dubbi, i reati contestati descrivono «l'utilizzo di un metodo tipicamente riconducibile alle mafie tradizionalmente intese, e caratterizzato in primo luogo dalla prospettazione di ogni ritorsione alle vittime in chiave "plurale", dal riferimento esplicito al clan quale segno di appartenenza al sodalizio, per esaltare l'efficacia intimidatoria delle condotte ed al riferimento ai gravi precedenti giudiziari degli appartenenti al gruppo; dall'affermazione del potere di imporre "il pizzo" in quanto derivante dal controllo del territorio». O meglio, l'aggravante del metodo mafioso nella commissione delle estorsioni, scrive il pubblico ministero, consiste nel «richiamare alla mente della vittima la condotta comunemente ritenuta propria di chi appartenga ad un'organizzazione di tipo mafioso, non essendo necessaria la dimostrazione dell'esistenza di un'associazione».
Fatto sta che anche gli altri sodalizi criminali della città riconoscevano il potere di un'organizzazione superiore alla famiglia Di Silvio capeggiata da Giuseppe Romolo cui fanno riferimento gli ultimi arrestati, come i figli Antonio "Patatino" e Ferdinando "Prosciutto", il fratello Costantino detto Costanzo, il nipote Ferdinando "Pescio" a sua volta figlio di Costantino "Patatone". Come testimonia la loro facilità di assoggettare al proprio controllo uno spacciatore legato ai sodalizi concorrenti. A farne le spese fu Renato Pugliese, come racconta lui stesso ai magistrati dell'Antimafia una volta diventato collaboratore di giustizia.
Lo spacci