La Corte d'Appello per la conferma dell'identità mafiosa del gruppo dei Di Silvio ha utilizzato due argomentazioni: la credibilità dei due pentiti e la qualificazione ormai «storica» del sodalizio emerso come un gruppo di stampo mafioso già nella guerra criminale del 2010, più volte richiamata nelle motivazioni della sentenza di secondo grado di Alba Pontina, pubblicata ieri. La Corte dunque ribatte punto su punto le contestazioni della difesa circa l'inesistenza di prove utili a sostenere il 416 bis e ciò lascia in piedi le condanne per un totale di 50 anni di carcere a carico dei nove imputati. In specie, dodici anni e mezzo di reclusione per Gianluca Di Silvio, detto Bruno, 11 anni, 10 mesi e 10 giorni per Samuele e 10 anni e 8 mesi per Ferdinando Pupetto, figli di Armando Lallà, tre anni e 4 mesi per Gianfranco Mastracci, 4 anni e 20 giorni per Daniele «Canarino» Sicignano, 2 anni e 2 mesi per Valentina Travali, 2 anni e 4 mesi per Mohamed Jandoubi e Hacene Hassan Ounissi, e un anno e 4 mesi per Daniele Coppi. Quasi ogni singolo paragrafo delle motivazioni richiama la sentenza «Caronte» e affonda le radici in quegli anni. Sono gli imputati ad offrirne lo spunto nelle intercettazioni riprese anche in questo verdetto. Nell'estorsione madre, quella del 2016 ad un ristoratore di Sermoneta, Ferdinando Pupetto Di Silvio dice alla vittima: «Ma tu lo sia chi sono io? Io sono quello che ha sparato a Zof». E' una frase rivelatrice di un mondo, il mondo scoperchiato da Alba Pontina. Con questa sentenza si chiude il grado d'Appello del primo troncone dell'inchiesta con cui nel giugno del 2018 fu decapitato il clan autoctono riferibile ad Armando Di Silvio detto Lallà, il quale, invece è imputato nell'altro troncone in essere con rito ordinario davanti al Tribunale di Latina.
L'associazione mafiosa attribuita ai Di Silvio deriva dal «prestigio criminale», nonché dall'«assoggettamento e omertà dei contesti in cui opera», utilizzati in tutte le estorsioni contestate come confermato dalle vittime oltre che dai due pentiti. A corroborare l'impianto accusatorio e la sentenza che lo fa proprio è un dialogo tra Shara Travali e il fratello Salvatore, detenuto. La ragazza a proposito dei Di Silvio dice: «...devi capì che i ruoli so' cambiati, mo' ce stanno loro, voi non ce state più». Salvatore e il fratello, Angelo Travali, erano considerati i padroni della città e del traffico di droga fino al giorno del loro arresto con l'operazione «Don't touch». Il reato dello stampo mafioso è ulteriormente avvalorato secondo la Corte dal controllo del feudo di Campo Boario, base logistica impenetrabile dei Di Silvio, quartiere dove abitava il capofamiglia, Armando Lallà appunto. Anche questa sentenza ritiene valide le accuse a Gianfranco Mastracci in relazione alla vicenda elettorale in cui un giovane tossicodipendente fu accompagnato al seggio e costretto a votare per un candidato, episodio per cui è in piedi un altro processo per voto di scambio.