Ogni volta che uno step giudiziario conferma l'esistenza del business criminale dei rifiuti interrati in Campania si riapre la ferita chiamata Marina di Castellone. Ed è accaduto anche ieri con la sentenza definitiva a carico dell'avvocato Cipriano Chianese, che con i soldi dei rifiuti interrati ha comprato l'ex complesso turistico oggi diventato il lugubre diaframma che divide la città di Formia in due. A due anni esatti dal verdetto di Appello, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 18 anni di carcere, per associazione camorristica e avvelenamento di acque, nei confronti di Cipriano Chianese, avvocato e imprenditore ritenuto tra gli ideatori, per conto del clan dei casalesi, del sistema delle ecomafie e dello smaltimento illecito dei rifiuti gestito dal boss Francesco Bidognetti. Chianese è stato riconosciuto responsabile del disastro ambientale della discarica Resit di Giugliano in Campania (Napoli), da lui gestita e nella quale furono portati rifiuti di provenienza lecita e illecita che hanno avvelenato in modo pressoché irreversibile il suolo e le acque di quella zona, al punto che una bonifica sarà possibile solo con l'intervento dell'Unione Europea. Siccome sulla Resit non ci furono adeguati controlli, anzi non ve ne furono affatto, quella discarica si trasformò in una bomba ecologica. Che, intanto aveva prodotto tantissimi soldi, investiti dal suo proprietario in beni immobili, auto e barche sparse lungo la costa del sud pontino come emerse al momento del sequestro del suo patrimonio. Oltre al complesso Marina di Castellone, oggi in amministrazione giudiziaria, risultano confiscate la villa di Sperlonga (pro quota) e la barca.

Parte delle responsabilità dell'avvocato si sono comunque perse per strada, bruciate dalle prescrizioni, che hanno colpito il reato di avvelenamento. Il ruolo dell'avvocato Chianese e la portata negativa dello sversamento di rifiuti provenienti in massima parte dal nord furono scoperti grazie all'indagine avviata negli anni Novanta da un poliziotto che agì pressoché in solitudine, Roberto Mancini, poi morto per un tumore che gli fu diagnosticato nel 2002, causato dal continuo contatto con i rifiuti tossici e radioattivi durante il suo lavoro d'inchiesta. Indagini che non ebbero «fortuna» all'inizio. Alcuni dossier firmati da Mancini furono riaperti solo nel 2011 e anche questo ha contribuito ad alcune prescrizioni.