Angelo Riccardi è collegato da una località protetta e sta guardingo e attentissimo nel dibattimento che lo vede tra gli imputati con la posizione peggiore in un'aula dove tutto è surreale. Si sta celebrando un processo che mette insieme gli incubi peggiori: una trentina di imprenditori di Latina, Fondi, Monte San Biagio, Pontinia, invocando la legge Bossi-Fini, hanno infilato in Italia migliaia di braccianti clandestini che la polizia ancora sta cercando.
E per far questo si è creato un business milionario. La storia viene valutata dalla Corte d'Assise presieduta dal giudice Gian Luca Soana e ieri in aula sono state srotolate alcune delle vicende sottese dal capo d'imputazione. Uno degli imprenditori imputati ha descritto l'incredibile meccanismo di richiesta di braccianti che è alla base del traffico di immigrati clandestini. «Ho incontrato al bar un certo Peppe (Giuseppe Peppe, presunto mediatore e coimputato ndc) e a lui ho consegnato i miei dati scritti su un foglio; dopo qualche giorno siamo andati a Latina, abbiamo consegnato la domanda e io ho firmato una ventina di fogli che lui ha lasciato allo sportello». Dunque le domande erano decuplicate rispetto all'esigenza dell'imprenditore agricolo: «Mi servivano un paio di braccianti e dovevo pagare circa 150 euro per la pratica di ognuno, 300 euro in totale». La versione del teste a tratti è sembrata artefatta. Ha detto di non ricordarsi esattamente quasi nulla del mediatore, ma a domanda specifica ha risposto che Giuseppe Peppe era in aula.
Più il dibattimento va avanti e più si delinea meglio cosa avvenne a monte di questa storia: è esistita una cricchetta che faceva entrare decine di clandestini, a gruppi e come braccianti necessari ad aziende agricole, alcune delle quali inattive, altre inesistenti, altre ancora con fabbisogno di manodopera minimo, utilizzando fotocopie di una procura falsa di un notaio. Una vicenda che, forse, sarebbe andata avanti ancora per molto tempo o che non sarebbe stata affatto scoperta se uno degli imputati non ne avesse parlato in altro procedimento indipendente; si tratta, appunto, di Angelo Riccardi, un collaboratore di giustizia che tra le varie dichiarazioni fatte ha messo pure il traffico di clandestini, notizia criminis che ha fatto scattare la relativa indagine affidata al commissariato di Fondi e sfociata nel processo in Corte d'Assise.
Angelo Riccardi anche in questo processo interviene continuamente per precisare il ruolo dei maggiori coimputati nonché i legami esistenti tra loro, i costi delle domande, i guadagni, il numero dei clandestini infornati con la scusa della necessità di braccianti. Riccardi compare nella veste di mediatore tra le imprese ma nella zona di Fondi era conosciuto per altro. Le sue dichiarazioni da pentito del gruppo Zizzo, che opera tra Fondi, Terracina e Monte San Biagio, consentirono di raccogliere prove determinanti per l'operazione «Amnesia» su un importante traffico di droga. Ma nei verbali del pentito c'è la prima descrizione del sistema con cui furono fatti entrare i clandestini, ossia con una serie di raggiri posti in essere per far arrivare in provincia di Latina lavoratori stranieri con permessi di lavoro che non avrebbero potuto ottenere perché senza requisiti, ma che furono chiesti «grazie» all'esistenza di un sodalizio composto soprattutto da imprenditori, oltre ad alcuni stranieri e impiegati di alcuni caf di Latina, Terracina e Fondi.