Sull'intreccio che dall'agguato di via Pantanaccio porta all'esecuzione di Largo Cesti gli inquirenti si affidano soprattutto alle dichiarazioni di Renato Pugliese, il collaboratore di giustizia che sostiene di aver raccolto da uno dei Di Silvio numerose informazioni sulle ragioni del dissidio insorto tra Massimiliano Moro e Carmine Ciarelli per via di un grosso debito relativo a un prestito di denaro concesso da Ciarelli a Moro.
Ma Pugliese era stato anche uno dei «Moro boys» al servizio dell'intraprendente figura di rilievo nell'ambiente criminale del capoluogo, e qualcosa sa anche di prima mano. «Quando frequentavo Moro - riferisce Pugliese ai magistrati della Dda - tra il 2007 e il 2008, Massimiliano aveva preso in prestito dei soldi da Carmine Ciarelli, per un ammontare complessivo di circa 180.000 euro. Nel tempo il debito con gli interessi era lievitato a circa 280.000 euro. Moro aveva due Range Rover nuovi e Carmine gli disse di dargli le due macchine e un orologio per chiudere la situazione, ma Moro cercava sempre di prendere tempo. Poi sono finito in carcere e non ho saputo più niente».
E' un suggerimento su un movente credibile e convincente per spiegare il tentato omicidio di Carmine Ciarelli: per chiudere una partita che avrebbe finito per metterlo in grossa difficoltà, visto lo spessore di Carmine Ciarelli, Massimiliano Moro avrebbe partorito l'idea di eliminare il suo pericoloso creditore.
Se le cose sono andate davvero così, Moro ha commesso il grave errore di affidarsi a una mano poco esperta, probabilmente un ragazzo al battesimo del fuoco che ha avuto timore della preda, che ha sparato come un ossesso e che non si è accertato del «buon esito» dell'azione.
Ma nell'ordinanza di custodia cautelare che indica in quattro persone i presunti componenti del commando che ha ucciso Massimiliano Moro, si legge anche una ricostruzione diversa, più complessa, all'interno della quale può trovare posto anche la questione irrisolta del debito usurario, ma come fattore aggiuntivo prima ancora che come movente principale.
«Non va dimenticato - scrive il giudice per le indagini preliminari Francesco Patrone - che Moro aveva chiaramente manifestato l'intenzione di ribaltare il potere delle famiglie rom, sostituendosi a loro, ed era pertanto considerato un vero e proprio nemico del sodalizio».
E' una tesi abbastanza verosimile, soprattutto perché alla vigilia dell'agguato di via Pantanaccio, le famiglie Ciarelli e Di Silvio avevano già deciso di unire le forze per esercitare il predominio sul traffico di stupefacenti, sulle estorsioni e sull'usura. Insieme, le due famiglie avrebbero dato vita a un monopolio difficile da contrastare. In questo quadro, l'iniziativa di Massimiliano Moro aveva un senso più esteso di quanto non fosse apparso all'indomani dei fatti del gennaio 2010. E soprattutto, questa tesi si apre al concorso di altri protagonisti, altre figure che potrebbero aver sostenuto il disegno di Massimiliano Moro per tagliare le gambe all'insorgente minaccia rappresentata dal sodalizio zingaro.
Ma la storia avrebbe preso un'altra piega, e rafforzato il legame in fieri tra i Ciarelli e i Di Silvio.