La sorte di Massimiliano Moro è segnata già 13 ore prima del suo assassinio, perché le lancette del destino del 46enne ucciso nella cucina della sua abitazione cominciano a muoversi alle 8.15 del 25 gennaio 2010, quando è ancora viva l'eco degli spari dei sette proiettili calibro 9 infilati in rapida sequenza nel corpo di Carmine Ciarelli, leader indiscusso dell'omonima famiglia rom e, come spiegano gli inquirenti della Dda, «un personaggio il cui peso incideva fortemente sugli equilibri della criminalità pontina».
Due persone ferme in sella a uno scooter parcheggiato in una piazzola di sosta di via Pantanaccio aspettano che Carmine Ciarelli esca dal bar poco distante dove era solito fare colazione tutte le mattine e riprenda a piedi la strada verso casa, duecento metri più in là. Quando lo vede uscire dal bar e attraversare la strada, uno dei due sconosciuti in attesa si stacca dal compagno e si avvicina all'ignaro Ciarelli che non ha il tempo di tentare alcuna reazione: gli spari partono subito, il bersaglio è a portata di mano e i proiettili vanno tutti a segno, uno dopo l'altro, finché Carmine Ciarelli non stramazza sull'asfalto.
Il killer abbandona la preda, raggiunge il complice e i due fuggono con lo scooter.
Un killer improvvisato, uno che ha avuto bisogno di svuotare mezzo caricatore, probabilmente più impaurito della vittima, e comunque un sicario che non ha portato a buon fine il «lavoro», perché non ha avuto la freddezza di sparare il colpo di grazia all'uomo a terra.
Carmine Ciarelli finisce in rianimazione, ma sopravviverà. Poche ore dopo, i familiari di Carmine hanno già le idee molto chiare sull'accaduto, e gli ultimi dubbi si dissolvono quando nei corridoi dell'ospedale dove Carmine lotta per la vita, arriva Massimiliano Moro per esternare il proprio dispiacere e per mettersi a disposizione «tante volte aveste bisogno di qualcosa, mi posso attivare», lasciando intendere che poteva collaborare alla ricerca dei responsabili del tentato omicidio. I Ciarelli non abboccano. Il fratello di Carmine, «Furt», e il figlio «Macù», convocano una riunione nel pomeriggio per decidere il da farsi, mentre continuano a condurre «indagini» serrate per arrivare a individuare chi siano gli esecutori dell'agguato in via Pantanaccio, e anche chi sia il mandante. La matassa si dipana più rapidamente del previsto, i Ciarelli decidono che il mandante è Massimiliano Moro e pianificano la vendetta.
Alle 22 di quello stesso giorno, 25 gennaio 2010, qualcuno suona al citofono di Moro, in Largo Cesti, in un condominio nel quartiere Q5. Il padrone di casa sa che può fidarsi di chi ha citofonato, apre il portone e spalanca la porta di casa. Gli ospiti entrano, Moro si accinge a preparare un caffè, ma mentre è di spalle rivolto al lavandino, qualcuno gli spara un colpo alla nuca, poi un altro. Qualcuno si accanisce con un piede sul corpo riverso a terra e commenta: «Non eri degno di ammazzare mio padre». Il commando se ne va in silenzio.