È stato un errore l'esclusione dell'aggravante del metodo mafioso, per Ferdinando Pupetto e Samuele Di Silvio, nel caso dell'estorsione consumata nel 2016 ai danni di un ristoratore di Latina, la vicenda emersa durante le indagini della Squadra Mobile pontina sul sodalizio criminale capeggiato da Armando detto Lallà, padre dei due imputati, poi sfociata nell'operazione Alba Pontina. Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione annullando la sentenza della Corte d'Appello di Roma, che aveva ridotto a cinque anni e sei mesi la pena, limitatamente all'esclusione del 416 bis dalle aggravanti. Dovrà quindi essere ripetuto senza la concessione dello sconto, davanti ai giudici di un'altra sezione, il processo di secondo grado a carico dei due giovani esponenti di una delle famiglie più agguerrite dei famiglia Di Silvio.

L'esito del processo d'Appello di questa vicenda era stato alquanto particolare visto che nel frattempo, gli stessi fratelli Samuele e Ferdinando Pupetto erano stati condannati, per l'inchiesta principale, rispettivamente a dieci anni e dieci mesi il primo, dieci anni e otto mesi il secondo, col riconoscimento del metodo mafioso per una serie di reati che vanno dalle estorsioni al traffico di droga. Peccato appunto che per una delle principali ritorsioni, per la quale è stato incardinato un giudizio separato, l'aggravante più significativa fosse caduta. Dopo tutto quell'episodio aveva assunto tutto un altro peso dopo la decisione di collaborare con la giustizia da parte di due degli imputati promotori dell'estorsione, Renato Pugliese e Agostino Riccardo.
A promuovere il ricorso era stato il procuratore generale che puntava sull'erronea applicazione della legge. Perché se in un primo grado i due fratelli Di Silvio erano stati condannati rispettivamente a nove e otto anni, in secondo grado si erano visti riconoscere le attenuanti generiche e l'esclusione del 416 bis per non avere affermato, i due imputati, la loro appartenenza a un'associazione di stampo mafioso. Un teorema che i giudici della Corte di Cassazione hanno smontato pronunciandosi a metà gennaio, con una sentenza pubblicata solo nei giorni scorsi.

Ripercorrendo le motivazioni che hanno spinto gli "ermellini" a disporre un nuovo processo di secondo grado, emerge chiaramente come la giurisprudenza sia chiara in merito alle accuse formulate ai due Di Silvio. «Non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l'esistenza di un'associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo» scrivono appunto i giudici della Suprema Corte, specificando come sia da considerare sintomatico il fatto che nel corso dell'estorsione uno dei soggetti, nel caso di specie Ferdinando Pupetto Di Silvio, avesse fatto riferimento a un fatto di sangue consumato diversi anni prima, vale a dire la gambizzazione a colpi di pistola di Alessandro Zof, per spaventare la vittima. Su questo aspetto i giudici sottolineano come «proprio il richiamo ad attività compiute da più soggetti all'interno di un'area territoriale è circostanza significativa delle volontà di arrecare una maggiore intimidazione al soggetto passivo il cui stato di timore è determinato non soltanto dalla natura della richiesta, ma altresì dall'evocazione delle modalità operative criminali del gruppo».

Insomma, data per assodata l'estorsione, i giudici della Corte d'Appello dovranno valutare nuovamente il caso dando un peso all'aggravante del metodo mafioso, che a questo punto non può essere escluso o almeno non per le motivazioni della prima sentenza di secondo grado pronunciata a carico di Ferdinando Pupetto e Samuele.