Le dichiarazioni rese da Renato Pugliese, poi da Agostino Riccardo e adesso da Andrea Pradissitto sulle circostanze dell'omicidio di Massimiliano Moro, sono convergenti e concordanti, e il fatto che l'ultimo dei pentiti entrato in scena, Andrea Pradissitto, sia stato un componente del commando che la sera del 25 gennaio 2010 si portò in Largo Cesti per eliminare il presunto mandante del tentato omicidio di Carmine Ciarelli avvenuto quella stessa mattina, soltanto sedici ore prima, porta al convincimento che ad uccidere Massimiliano Moro sia stato Simone Grenga, entrato nell'abitazione della vittima insieme a Ferdinando Ciarelli detto Macù, intenzionati a vendicare l'affronto subito dalla famiglia Ciarelli con il tentativo di uccidere il leader della famiglia, Carmine.

Ad attendere i due esecutori sotto l'abitazione della vittima, c'erano Antongiorgio Ciarelli e Ferdinando «Pupetto» Di Silvio, che sarebbero poi stati raggiunti da Andrea Pradissitto e Ferdinando Gianni Di Silvio, questi ultimi due arrivati in Largo Cesti mentre Grenga e «Macù» uscivano dal palazzo dove avevano appena consumato l'omicidio.
Il via vai di auto e scooter partiti dalla zona di Piazza Moro per dirigersi nel quartiere Q5 aveva già trovato conferma dall'analisi degli spostamenti dei telefoni cellulari delle persone indagate nel procedimento avviato subito dopo il fatto e poi archiviato nel 2015 perché gli indizi raccolti erano stati ritenuti insufficienti per andare al processo. Quelle persone indagate, sono le stesse colpite dalla nuova ordinanza di arresto dell'altro ieri, sostenuta dalle dichiarazioni di Andrea Pradissitto. Ma se a questo punto sembra fugato ogni dubbio sulle responsabilità dell'esecutore dell'omicidio di Massimiliano Moro e degli altri componenti del commando entrato in azione la sera del 25 gennaio 2010, dalle dichiarazioni di Pradissitto ed anche degli altri pentiti che lo hanno preceduto nel riferire quello che avevano sentito a proposito di quel fatto, non emerge un solo elemento capace di indicare Moro come l'effettivo mandante dell'attentato contro Carmine Ciarelli.
E' vero che l'indagine si occupa di stabilire chi abbia ucciso Moro, ma la narrazione di un pezzo importante della storia criminale che ha scosso la città resta monca di un passaggio fondamentale.

E' stato accertato che all'interno della stessa famiglia Ciarelli, immediatamente dopo il ferimento di Carmine in via Pantanaccio, si erano formate due fazioni opposte, quella sostenuta dal capostipite Ferdinando «Furt» Ciarelli, e l'altra dal nipote di quest'ultimo e figlio di Carmine, Ferdinando detto «Macù»: il primo esigeva che fossero raccolte le prove della responsabilità di Massimiliano Moro, o di altri, prima di consumare una vendetta affrettata; il secondo intenzionato invece ad agire subito, prima che la famiglia potesse subire un ulteriore affronto.
Ecco come Andrea Pradissitto racconta del ritorno a casa dopo l'assassinio di Massimiliano Moro: «...Mi sono fatto accompagnare a casa di mio suocero dove avevo la macchina. Quando entrai nel vicolo dove abita mio suocero vidi parcheggiata anche l'Audi A3 utilizzata da Antongiorgio Ciarelli e Pupetto Di Silvio. Capii subito che c'era qualcosa che non andava, mio suocero mi cominciò a trattare come un bambino, a dire che eravamo dei mocciosi. Rimproverò tutti i presenti e ci ha cacciato di casa dicendo che avremmo pagato le conseguenze di quello che avevamo fatto. Mi chiese conferma di quello che era accaduto e io gliela diedi; dissi anche, per difendere la scelta fatta, che senza una reazione saremmo stati tutti in pericolo».
Ma a parte i sospetti e le sensazioni di «Macù», convinto assertore della responsabilità di Moro fin dal momento in cui lo aveva visto entrare in ospedale per portare la sua solidarietà ai familiari di Carmine Ciarelli, non c'è alcuna prova che a sparare in via Pantanaccio sia stato davvero Gianfranco Fiori, peraltro scagionato da quell'accusa, e che il mandante di quel tentato omicidio sia stato effettivamente Massimiliano Moro. E chissà se il buio fitto mai dissipato sul movente dell'omicidio di Fabio Buonamano, avvenuto il giorno successivo a quello dell'assassinio di Moro, nasconde qualche tassello che manca per chiudere il cerchio della verità su quelle 48 ore di follia che hanno insanguinato Latina.