La sentenza del processo Alba pontina è definitiva. I giudici della Corte di Cassazione ieri hanno dichiarato inammissibile il ricorso presentato dagli imputati del clan Di Silvio che hanno impugnato le condanne del processo della Corte d'Appello. I magistrati della Suprema Corte hanno confermato il metodo mafioso. Si chiude in questo modo un capitolo dell'inchiesta, una tra le più imponenti di polizia giudiziaria degli ultimi anni.
Confermate le condanne per chi aveva scelto in primo grado il giudizio abbreviato: Gianluca, Samuele e Ferdinando Pupetto Di Silvio, figli di Armando Lallà, sono stati condannati rispettivamente a dodici anni e mezzo, 11 anni, 10 mesi e 10 giorni e 10 anni e 8 mesi. Confermate le condanne anche per gli altri imputati: tre anni e 4 mesi per Gianfranco Mastracci, 4 anni e 20 giorni per Daniele Sicignano, 2 anni e 2 mesi per Valentina Travali e Hacene Hassan Ounissi, e un anno e 4 mesi per Daniele Coppi.
Le indagini della Squadra Mobile di Latina e coordinate dai pubblici ministeri Luigia Spinelli, Claudio De Lazzaro e Barbara Zuin, hanno portato nel giugno del 2018 all'emissione delle misure restrittive firmate dal gip Antonella Minunni dove era stata contestata a vario titolo l'associazione per delinquere con l'aggravante del metodo mafioso.
Sia in primo grado davanti al gup di Roma Annalisa Marzano che in Corte d' Appello l'impianto accusatorio aveva pienamente tenuto.
Ieri i giudici della Suprema Corte hanno anche stabilito il risarcimento da liquidarsi in separata sede per le parti civili tra cui il Comune di Latina, la Regione Lazio e l'Associazione Caponnetto per il danno subito dall'esistenza di un clan sul territorio.
Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, il giudice aveva messo in rilievo il prestigio criminale del sodalizio, rimarcando l'assoggettamento e l'omertà nei contesti in cui opera.
«Emerge chiaramente l'omertà dei testimoni, i quali, nella gran parte dei casi preferivano ritrattare o rimanere in silenzio pur di non subire pericolose ritorsioni».
Le indagini hanno poggiato le basi su intercettazioni telefoniche, ambientali e sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Renato Pugliese e Agostino Riccardo.
Nel corso sia del primo che del secondo grado, i magistrati avevano sottolineato che l'associazione si deve ritenere mafiosa per la sussistenza di una serie di requisiti a partire dall'attendibilità delle rivelazioni dei pentiti spiegando che l'apporto investigativo aveva permesso di delineare il contesto in cui si sono mossi gli imputati e che la prova degli episodi si fonda oltre che sulle dichiarazioni anche sulle sommarie informazioni delle vittime delle estorsioni.
Ieri in aula il procuratore generale ha chiesto il rigetto dei ricorsi presentati dalle difese, alla fine la Cassazione ha confermato le condanne complessive di 50 anni emesse dalla Corte d'Appello per associazione per delinquere con l'aggravante del metodo mafioso a vario titolo anche finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti.
E' diventata definitiva la sentenza per il primo troncone di Alba pontina. Tra pochi giorni si conosceranno invece le motivazioni della sentenza di condanna in primo grado emessa lo scorso luglio per gli altri imputati che hanno scelto la strada del rito ordinario.