Giuseppe «Romolo» Di Silvio, al quale il pentito Renato Pugliese ha affibbiato il soprannome di Scarface, è l'uomo che undici anni fa aveva ideato e posto in essere la cosiddetta «guerra criminale», la strategia che avrebbe dovuto portare il sodalizio appena stretto tra le due famiglie rom dei quartieri Gionchetto e Pantanaccio, i Di Silvio e i Ciarelli, ad esercitare il pieno controllo sulle attività illecite dell'intero territorio di Latina.
Un disegno che aveva radici lontane, risalenti all'anno 2003, all'indomani dell'attentato di Capoportiere costato la vita al fratello di Romolo, Ferdinando Di Silvio, all'epoca leader indiscusso della famiglia di Campo Boario.
Due etti di tritolo piazzati sotto il sedile dell'auto del cognato della vittima, erano bastati a impressionare non soltanto una città intera, ma anche gli stessi Di Silvio, costretti a reprimere rabbia e desiderio di vendetta per le modalità e il significato simbolico di quella esecuzione. Nel 2003 Romolo «Scarface» Di Silvio aveva 37 anni, e ne avrebbe impiegati circa una decina per assumere il ruolo che era stato del fratello Ferdinando. E a metterlo alla prova sarebbe stata la scintilla inattesa che avrebbe acceso la miccia della cosiddetta guerra criminale, peraltro fornendo anche il pretesto per consumare finalmente una vendetta sempre rimandata: l'attentato del 25 gennaio 2010 ai danni di Carmine Ciarelli.
Il sodalizio appena costituito tra le due famiglie rom aveva consentito al gruppo dei Di Silvio, che si considerava il braccio armato della coalizione, di farsi carico di scoprire chi fossero gli autori dell'agguato nel quale il leader indiscusso dei Ciarelli era rimasto ferito da sette colpi di pistola andati tutti a segno, ma non sufficienti per eliminare la «mente» dell'intero gruppo criminale appena rinforzato dalla comunione di intenti. Erano bastate poche ore perché nella testa di Romolo Di Silvio e del nipote «Patatone» figlio di Ferdinando si facesse strada la convinzione che il mandante dell'agguato contro Carmine Ciarelli fosse Massimiliano Moro, mosso da questioni personali (pare dovesse restituire circa duecentomila euro a Ciarelli), e al contempo legato a doppio filo all'ambiente criminale nel quale sette anni prima era maturata la ritorsione esplosiva ai danni di Ferdinando Di Silvio, che aveva osato fare la voce grossa contro le persone che poche settimane prima avevano gravemente ferito il cognato per una questione legata al traffico di stupefacenti.
La sera stessa del 25 gennaio 2010, tredici ore dopo il tentato omicidio di via Pantanaccio, un commando armato uccideva Massimiliano Moro all'interno della sua abitazione in Largo Cesti nel quartiere Q4. Soltanto quest'anno, grazie alla testimonianza autoaccusatoria di Andrea Pradissitto, si è avuta la certezza sulla regia e la partecipazione dei Di Silvio per l'omicidio di Massimiliano Moro.
Ma quello era stato soltanto il primo episodio di una vendetta che esigeva altre puntate, altre vittime. Sangue chiama sangue, il 26 gennaio 2010, meno di ventiquattro ore dopo l'assassinio di Moro, in Via Monte Lupone, nel quartiere Gionchetto, feudo della famiglia guidata da «Scarface», Romolo Di Silvio e il nipote «Patatone» uccidevano Fabio Buonamano, per ragioni mai definitivamente chiarite. Una di queste, potrebbe essere la seguente: in buoni rapporti con i Di Silvio, ed essendo al contempo legato all'ambiente frequentato da Moro e alle persone ritenute responsabili dell'attentato del 2003 sul lungomare di Capoportiere, Fabio Buonamano avrebbe potuto fare da esca per arrivare a vendicare l'uccisione di Ferdinando. Ma «Bistecca» era un giovane di carattere e non si sarebbe piegato a una porcheria del genere. Forse ne era nato un diverbio degenerato poi nell'omicidio di Buonamano.
Quel pomeriggio, Romolo e «Patatone» erano stati visti allontanarsi con Fabio Buonamano, e la polizia aveva impiegato meno del previsto per risalire agli autori dell'esecuzione di via Monte Lupone. I sogni di grandezza di Giuseppe Romolo Di Silvio e del nipote si sarebbero infranti con la latitanza e poi con la detenzione, infine con le condanne che ancora li tengono in carcere.
A prendere il loro posto, e la leadership del gruppo rom, il nucleo familiare di Armando «Lallà» Di Silvio, forte di una discendenza filiale molto nutrita e agguerrita, spregiudicata e anche crudele.
Altre inchieste sarebbero poi arrivate a sfiancare la famiglia Di Silvio, che nel frattempo, in forza della modalità mafiosa con cui poneva e continua a porre in essere le proprie attività illecite, avrebbe guadagnato anche lo status di clan.
Gli arresti di ieri mattina danno la misura di quanto l'araba fenice del clan Di Silvio sia in grado di rigenerarsi, ma testimoniano anche della capacità dei leader della famiglia di dettare le regole, determinare i ruoli e impartire i compiti anche stando dietro i muri di un carcere. Giuseppe Romolo Di Silvio resta il capo indiscusso anche per le trentatré persone colpite ieri dall'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Roma su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia.
Giuseppe Romolo ha dovuto lasciare a casa, in via Moncenisio, il trono in velluto rosso e lo schienale barocco in similoro, ma anche stando seduto nel cortile di un carcere riesce a mantenere l'autorità e il carisma che gli sono valsi l'appellativo di «Scarface».