n una lunga dichiarazione spontanea l'udienza del processo «Scheggia» sulla campagna elettorale di Gina Cetrone del 2016. E termina poco dopo per un imprevisto tecnico: il carcere di Agrigento dal quale era collegato in videoconferenza Samuele Di Silvio si stava allagando a causa delle forti piogge e ciò rendeva insicuro il circuito elettrico. Dunque stop e si torna in aula il 30 novembre prossimo. Ma prima di questa surreale battuta d'arresto c'era stato il tempo per un paio di colpi di scena per quello che resta uno dei processi-specchio di un certo modo di vivere le campagne elettorali negli Anni Duemila. In apertura il pubblico ministero Luigia Spinelli ha depositato ulteriore documentazione prova a sostegno dell'accusa, in specie alcune chat intercorse tra il collaboratore di giustizia Agostino Riccardo, Armando Di Silvio e uno dei figli di quest'ultimo, Gianluca. Documentazione consegnata in aula dal capo della squadra mobile di Latina, Giuseppe Pontecorvo. Subito dopo Armando Di Silvio ha chiesto di fare spontanee dichiarazioni. Un lungo intervento, frutto della lettura di un documento che il principale imputato del processo ha incentrato su due punti: l'estraneità alla raccolta dei voti e l'inesistenza di rapporti con l'ex consigliera regionale Gina Cetrone e il marito di lei, l'imprenditore Pagliaroli, entrambi coimputati. Armando Di Silvio ha tirato fuori concetti già espressi con le medesime frasi: «Sono un povero zingaro e non ho mai fatto campagna elettorale per nessuno né ho attaccato i manifesti. Non ho mai conosciuto la Cetrone, che era una deputata e non parlava certo con gente come me, né ho mai visto il marito. All'epoca dei fatti ero pedinato dalla polizia, mi avrebbero visto con queste persone se li avessi davvero incontrati».