In aula il pubblico ministero Luigia Spinelli ha tirato le somme del processo Movida, una costola dell'inchiesta madre Scarface, dove viene contestata ad alcuni componenti del clan Di Silvio l'aggravante delle modalità mafiose.

Il magistrato ha ripercorso in particolare le condotte contestate a partire dalle estorsioni e alla fine ha chiesto dieci anni di reclusione per Antonio Patatino Di Silvio, 28 anni, figlio maggiore di Giuseppe Romolo, sei anni per Costanzo Di Silvio, cinque anni per Fabio Di Stefano, cinque anni e quattro mesi per Luca Pes e Massimiliano Tartaglia. Nel corso della prossima udienza la parola passerà alle difese. Il collegio difensivo è composto dagli avvocati Oreste Palmieri, Maurizio Forte, Luca Amedeo Melegari, Sandro Marcheselli, Alessandro Diddi, Carla Bertini. L'operazione condotta dagli agenti della Squadra Mobile di Latina era scattata nel dicembre del 2020 e gli accertamenti erano nati a seguito di una aggressione avvenuta in piazza Moro.

In base a quanto ipotizzato dagli inquirenti l'obiettivo del sodalizio era quello di assumere il controllo dello spaccio di droga nel quartiere della movida della città, da cui trae spunto il nome dell'operazione. «Se vuoi continuare a lavorare in questa zona devi pagare», era stata la richiesta estorsiva di un componente del clan all'indirizzo del titolare di una attività commerciale. E le conseguenze sarebbero state pesanti: «Porto una tanica di benzina e do fuoco al locale e a tutti voi».

Tra pochi giorni dunque sarà emessa la sentenza, mentre per l'operazione Scarface, anche questa condotta dall'Antimafia e dalla Squadra Mobile, i magistrati inquirenti hanno chiesto il giudizio immediato. In Scarface sono 33 gli imputati (alcuni hanno scelto il rito abbreviato) e viene ipotizzato anche il vincolo associativo. L'inchiesta Movida davanti al Riesame aveva tenuto e l'impianto accusatorio era rimasto inalterato.

I reati a vario titolo sono: rapina, estorsione aggravata dal metodo mafioso, violenza privata. Nel provvedimento era emersa la potente forza di intimidazione e il caso di una vittima che non voleva denunciare per paura di vendette. «C'era una condizione di assoggettamento ed omertà», avevano messo in luce gli inquirenti. Le parti offese hanno raccontato i fatti alla Polizia soltanto in un secondo momento, e cioè quando sono stati chiamati dagli investigatori della Squadra Mobile che già indagavano sui Di Silvio.
Il processo riprende l' undici marzo, quando parleranno le difese.