Cerca

L'intervista

Gabriella Marano e la violenza che arriva da gap culturali

La psicologa clinica e criminologa: «Appena 40 anni fa esisteva il delitto d’onore, c’è ancora molta strada da fare»

Gabriella Marano e la violenza che arriva da gap culturali

Incontriamo Gabriella Marano in una sera un po’ troppo silenziosa per Latina, alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza di genere e appena inizia il dialogo si capisce che è il tempo di mettere un po’ da parte i simboli delle scarpe rosse, pure utilissimi al messaggio, per prendere di petto una questione culturale che ci porta ad essere tra i Paesi più pericolosi per le donne. Nata ad Avellino ma da sempre residente nel capoluogo pontino, psicologa clinica e criminologa, Marano è una donna che spessissimo si trova a scrivere consulenze su altre donne, vittime di femminicidio o di abusi. E’ stata infatti perito delle Procure o dei Tribunali in plurimi procedimenti scaturi dall’applicazione del codice rosso e oggi affronta la Giornata contro la violenza con la consapevolezza dei dati tecnici, quelli che emergono dai colloqui con le vittime, con i familiari superstiti e anche con le famiglie dell’aggressore. Ne scaturisce un quadro della realtà che non può essere slegato mai da fattori culturali, dove la lotta alla violenza non è solo e purtroppo una partita giudiziaria.

La Giustizia anche quando c’è arriva dove può e non sana la frattura concettuale che sta alla base delle violenze di genere. E’ facile incontrare Gabriella Marano nei corridoi del Tribunale di Latina quale perito in alcuni dei più crudi processi per violenza sulle donne, fino al femminicidio. Sono contenitori di dolore dove ogni parola tecnica conta, ogni analisi psicologica aiuta a ricostruire il fatto ma anche il contesto nel quale è maturato. Un lavoro paziente e spesso fatto dietro le quinte che, però, è fondamentale per il Tribunale, talvolta per gli stessi difensori e soprattutto per le parti civili, le persone che restano e che oltre la ferita inguaribile possono trovare almeno la giustizia parametrata su basi documentali, che non guariranno l’anima eppure restituiranno speranza in qualche misura.

«Il fattore ineludibile - dice - è che noi usciamo da un’epoca recente in cui la donna era considerata un ‘bene disponibile’ degli uomini. Fino al 1981 in Italia è esistito il delitti d’onore, un’attenuante per cui erano previste pene ridotte nel caso in cui un uomo uccideva la sua donna, ove questa avesse offeso l’onore della famiglia. Siamo un Paese dove il divorzio come istituto legale è stato introdotto negli anni 70, e ancora più tardi il diritto delle donne all’aborto legale, il Paese della patria potestà anch’essa superata da troppo poco tempo. Si tratta di retaggi culturali che dobbiamo ancora superare ed è questo che sta alla base di tante azioni criminali verso le donne, l’idea che la donna sia ancora ‘qualcosa’ di cui disporre».

Quindi in Italia c’è il patriarcato?
«Se incrociamo questi dati, emerge con evidenza. Il punto è che bisogna insistere molto dal basso, dalla formazione, dall’abitudine al rispetto, che nasce dall’educazione familiare e scolastica e che poi si rifletterà nella società».

Lei entra in campo quando è già accaduto il reato. Cosa trova?
«Quando arriviamo noi criminologi e psicologi clinici troviamo macerie. Troviamo la famiglia e l’entourage della vittima in mille pezzi, ma poi ci sono anche le famiglie degli aggressori e degli omicidi perché pure in quel contesto si consuma un trauma feroce. E non è facile ricostruire, talvolta è complesso anche stabilire un contatto, aprire un varco tra quelle macerie. Ci troviamo davanti ad un cumulo di dolore, devastazione non solo di chi ha perso una donna ma anche di chi ha perso un uomo perché quando un soggetto uccide non è solo e soltanto lui ma dietro ha un padre, una madre, fratelli che ne escono devastati. Quindi c’è un cumulo di vittime. La sensazione è una sorta di inerzia, siamo quasi paralizzati davanti a quel dolore perché non sai mai come muoverti all’improvviso, sono persone fragili, qualunque parola può essere fuori posto. Per cercare di comprendere, per ricostruire cosa è successo sul piano psicologico, quale molla è scattata, bisogna addentrarsi nei meandri delle vite delle persone coinvolte. Spesso ciò richiede un percorso a ritroso nelle personalità dell’omicida, è una parte rilevante, credo essenziale, ai fini della valutazione giudiziaria di un fatto. Questo tipo di approccio, di analisi, ci può restituire cosa sono state le ultime ore della vittima, il clima, i toni dei dialoghi o dei fatti avvenuti nelle ore o nei giorni che hanno preceduto l’evento delittuoso». 

La reazione standard davanti ad un femminicidio è "si poteva fare di più, si poteva fare prima". Cioè, c’è sempre quella sensazione di essere arrivati troppo tardi...
«Sì questo è vero ma non è sempre così. In realtà c’è un lavoro globale da fare dietro storie di questo tipo».

Nei procedimenti giudiziari derivanti dall’applicazione del codice rosso il tempo gioca sempre un ruolo: spesso, nei processi per maltrattamenti, si chiede alla vittima perché non ha denunciato subito le violenze, perché ha aspettato anni prima di andare dai carabinieri. Eppure sappiano che dietro quei rinvii ci sono tante motivazioni, tipo l’indipendenza economica, la mancanza di un luogo dove rifugiarsi...
«Una donna decide di denunciare quando si rende conto che è l’unica via d’uscita, sono poche quelle che trovano il coraggio subito di firmare un esposto e anche qui c’è quel rigurgito atavico della «sopportazione». Una donna non denuncia per svariate motivazioni: perché ha paura per se stessa oppure per i suoi familiari e abbiamo visto tante volte come la violenza si può estendere ai familiari. Poi c’è la sfiducia, in tante non credono di poter ottenere risultati concreti dalla giustizia, dalle forze di polizia oppure perché non sono autonome, non sanno dove andare a vivere e come sostenersi economicamente. Oggi il 37% delle donne italiane non ha un proprio conto corrente, quindi capiamo bene quanto questo aspetto economico incida sulla mancata denuncia. Tuttavia bisogna dire che anche quando le donne denunciano non si riesce sempre ad evitare l’irreparabile. Prendiamo il caso di Pamela Genini, uccisa il mese scorso a Milano dal compagno che lei voleva lasciare. Ebbene, Pamela aveva denunciato l’uomo che la minacciava, ha chiesto aiuto fino alla fine. Eppure non siamo riusciti a salvarla. Certo se guardiamo il fenomeno nel suo complesso è innegabile che quando avviene un atto violento qualcosa nella filiera delle responsabilità si inceppa».

Visto con gli occhi di un tecnico qual lei è, che cosa è cambiato davvero negli ultimi dieci, venti anni nell’approccio alla prevenzione della violenza sulle donne?
«Sicuramente sonno migliorate le leggi che tutelano le donne vittime di violenza. Inoltre è cresciuta la consapevolezza collettiva sul fenomeno dei femminicidi, però i numeri terribili che registriamo ogni anni ci dicono che il percorso è ancora lungo e che siamo lontani dal traguardo. Serve tanta formazione e sempre maggiore attenzione culturale verso il fenomeno della violenza di genere. Ripeto: il processo di emancipazione e riconoscimento dei diritti delle donne è, relativamente, recente. Sono 40, 50 anni che in Italia si attribuisce alle donne il diritto all’autodeterminazione, senza contare che questo cambiamento non è stato uguale per tutte le fasce sociali e a tutte le latitudini. Poi negli anni il gap è stato recuperato anche rapidamente ma quel certo scoglio culturale resta. Lo vediamo anche nella terminologia della narrazione: “Uccisa perché lei voleva lasciarlo”, “Lui era geloso”, “Litigavano perché lui non voleva il divorzio”, “Lui era possessivo e le controllava il telefono” e così via...».

Siamo in una provincia multietnica ed è innegabile che in alcune comunità, come quella indiana per esempio, le donne scontino ancora di più il problema delle violenza e relativa difficoltà a denunciare. Quanto pesano le culture patriarcali delle altre etnie, se pesano?
«Purtroppo la violenza è trasversale rispetto a etnia, religione, cultura, età, ceto sociale ed economico; essa si annida ed esplode ovunque. Piuttosto l’idea di fondo è sempre la stessa, quella del possesso e del controllo verso le donne e poi sulla condizione della vittima che tante volte non può ribellarsi perché ella stessa non crede o non ritiene di riuscire ad andare avanti senza il suo aggressore».

Per quanto si voglia essere asettici e distanti, ogni professionista si porta dentro per sempre una storia che ha trattato piuttosto che un’altra. Qual è la sua?
«Io giro tutta l’Italia e collaboro con tanti uffici giudiziari quindi è una domanda davvero difficile. Ma posso dire che il caso di Giulia Cecchettin è quello che mi è rimasto letteralmente attaccato addosso finora. I motivi sono tanti e diversi. Io sono entrata nella cameretta di Giulia e lì l’ho «conosciuta»; ho avuto modo di vedere e leggere cose di lei che per segreto professionale non dirò mai ma che mi hanno aiutato a fare un ritratto e poi a collaborare a quello che è diventato un caso giudiziario che ha sconvolto il Paese, ha cambiato la percezione del problema in tanti adulti. Giulia Cecchettin è diventata, giustamente, la ragazza che poteva essere la figlia di ognuno di noi, la ragazza della porta accanto, la piccola donna normale che voleva solo fare delle scelte normali per la sua età, con una vita normale, sogni, abitudini, amici, scuola, tutto normale e poi è entrata in un circuito di orrore e morte. Ecco, credo che questo sia il mix di ingredienti che ha reso il caso di Giulia un passaggio professionale che mi ha segnata e non dimenticherò. Dopo quel femminicidio abbiamo assistito ad una vera e propria reazione collettiva, ci sono state tantissime manifestazioni di piazza animate da ragazze della stessa età di Giulia. Tutto questo perché migliaia di donne si sono identificate in quella giovane studentessa».

In quelle manifestazioni si diceva e scriveva «Mai più un’altra Giulia», invece i dati non sono cambiati. Che altro dobbiamo e possiamo fare?
«Molto c’è da fare e ognuno di noi ha il dovere di fare qualcosa per invertire il trend. Quello che io dico sempre quando mi invitano nei dibattiti, in trasmissioni televisive o nelle scuole è che non bisogna mai smettere, neppure per un momento, di lavorare sulla formazione culturale e sul concetto di rispetto».

Cosa possiamo fare noi? Noi tutti?
«Quando ci troviamo di fronte ad una violenza, che per fortuna non sempre degenera in femminicidio, ci dobbiamo chiedere da dove scaturisce. Due sono le motivazioni fondamentali, una socio-culturale e una familiare. Del pregresso culturale che «autorizzava» o giustificava le violenze abbiamo già sottolineato il peso. Tutto questo non si cancella con un colpo di spugna. Ancora oggi c’è l’uomo capofamiglia in alcuni contesti. L’altro aspetto riguarda la famiglia. C’è una responsabilità della famiglia quando si immettono nel circuito sociale queste personalità disfunzionali, quindi dobbiamo riprenderci il concetto di famiglia».

Edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione