«Mi piacerebbe essere ricordato come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile, che però non si è arreso. E se non dovessi tornare, vorrei che il messaggio destinato a mio figlio fosse questo: non fermarti, non arrenderti, datti da fare perché il mondo ha bisogno di persone migliori, capaci di far sì che la pace sia una realtà e non soltanto un'idea, persone convinte che valga sempre la pena fare ciò in cui credono».
E' tutto racchiuso in queste frasi, che oggi hanno il suono triste di un testamento morale, quello che c'è da sapere di Daniele Nardi, il 42enne di Sezze che ora riposerà per sempre sul Nanga Parbat, la montagna che ha già consegnato l'alpinista pontino alla leggenda di questo sport. Daniele era consapevole di quello che stava andando a fare, dei rischi che quella passione diventata un lavoro poteva portargli. Aveva messo in conto di poter perdere la vita, sapeva anche quanto sarebbe stato maledettamente difficile, in caso di insuccesso, riportare giù il corpo e restituirlo all'affetto dei famigliari. Se ce l'avesse fatta sarebbe diventato un eroe, adesso, dopo tredici giorni in cui si è letto e detto di tutto, chi non mastica di alpinismo, chi non può comprendere certe passioni, non può spiegare il suo gesto. Come può un padre, un marito, un figlio andare incontro ad un azzardo tanto grande? Sono domande che in molti si sono posti in queste settimane. Alcuni di noi non l'avrebbero mai fatto, altri lo comprendono, forse, ma in pochissimi al mondo sanno cosa significa realmente ciò che Daniele e Tom stavano tentando di fare su quella montagna sperduta nel Pakistan. E se una scelta non la comprendiamo, allora il minimo che possiamo fare è rispettarla. Non tristezza, né rabbia, né pietà o critiche, soltanto rispetto. Rispetto per un uomo che ha inseguito un ideale, una visione, uno stile di vita. Quello che è avvenuto era solo uno dei possibili esiti di un'avventura bellissima. Lo sapeva Daniele, lo sapeva Tom, lo sapeva la famiglia che in un gesto di amore estremo lo ha lasciato andare. Tutto per puro e semplice rispetto dell'uomo, prima, e poi dell'atleta e dello scalatore.
Un alpinista "scientifico"
Ma non chiamatelo pazzo, Daniele Nardi era esattamente l'opposto. Non un folle alla rincorsa della gloria o dei riflettori. Inseguiva la storia, è vero, voleva riscrivere il modo di approcciare all'alpinismo, ma non era uno sprovveduto. Conosceva il pericolo, e chi lo ha potuto apprezzare da vicino parla di lui come uno scientifico calcolatore. Lo Sperone Mummery lo conosceva come le proprie tasche per averlo studiato da vicino. Due volte era andato lassù da solo, una in compagnia della francese Revol, stavolta insieme a Tom Ballard. Aveva passato 400 giorni negli ultimi 6 anni sul Nanga Parbat, lo aveva esaminato in ogni suo angolo più remoto e aveva calcolato tutto: dove non sostare per non rischiare di essere travolti dalle valanghe o dai seracchi, dove passare sul Mummery per non finire in un crepaccio. Era un purista Daniele Nardi, voleva passare lì dove nessuno aveva fatto prima (se non Reinhold Messner in estate e in discesa) in puro stile alpino, cioè senza corde e ossigeno. Era scientifico e anche lucido nel capire quelli che erano i limiti oltre cui non spingersi mai. Era tornato indietro quando il compagno Alì Sadpara aveva accusato il mal di montagna. Sapeva anche fare i conti con la sconfitta, cadere e poi rialzarsi, come quando nel 2016, dopo una spedizione a dir poco turbolenta in cui rischiò anche la vita dopo una scivolata in parete, venne lasciato al campo base proprio da Sadpara, che con Simone Moro e Alex Txikon riuscirono poi a scalare - i primi in inverno -, quel gigante pakistano che Daniele sognava. Nardi però aveva altri piani per la testa, quello sperone Mummery che è una linea dritta che porta subito sotto al trapezio sommitale del Nanga. Un alpinismo spinto al limite del possibile, ma consapevole. Con Tom Ballard aveva instaurato un feeling speciale, consolidato da più di un anno di scalate insieme. Quel giovane inglese era un formidabile rocciatore, l'uomo giusto per riuscire a domare insieme a lui l'animale selvatico che è il Mummery Rib.
La montagna
Per Daniele era la sesta volta sul Nanga Parbat, una seconda casa, una montagna che non è né killer, né assassina, ma che, come tutte le altre «è una madre che accoglie e protegge i suoi figli - scrive Mauro Corona in uno dei passaggi più belli della sua letteratura - che si stiracchia, respira, sbadiglia e qualche bambino rotola giù».
Daniele e Tom la rispettavano e ora riposano nel suo ventre. Solo un anno fa era stato lo stesso Daniele Nardi a soccorrere un alpinista in difficoltà come l'amica Elisabeth Revol, ricoprendo un ruolo fondamentale per coordinare i soccorsi dall'Italia. Stavolta il destino ha voluto toccasse a lui. E in suo soccorso sono andati Ali Sadpara e Alex Txikon, due che, come detto, con Daniele avevano avuto degli attriti in quella spedizione del 2016. Due che però non hanno tentennato, segno che l'empatia e quelle leggi non scritte della montagna vanno al di fuori dell'umana comprensione. Affondano in una dimensione che non può capire chi quegli ottomila metri li può vedere soltanto alzando il naso all'insù.
Daniele e le sue radici
Era un alpinista speciale. Il primo nato al di sotto del Po a scalare ben 5 ottomila metri, tra cui Everest e K2. Era arrivato lontano, affrontando anche le critiche e la diffidenza dei tanti colleghi che lo avevano presto ribattezzato Romoletto, forse anche per via di quell'inflessione tutta pontina che ai più suonava così strana. Ma Daniele non aveva rinnegato o dimenticato le sue radici, anzi. Tra Carpineto e Sezze c'era la sua storia, la sua famiglia, la sua montagna. Sul Semprevisa si allenava e correva non appena di ritorno dalle spedizioni, adorava quei luoghi, aveva fatto tanto per loro, rimettendo anche in moto il piccolo rifugio di Campo Rosello. Non amava i riflettori e la pagine dei giornali e si spendeva per la gente. Non solo diventando ambasciatore dei diritti umani, o in Pakistan, dove era amato in particolare per gli aiuti che portava ai bambini di quei luoghi, ma anche nella quotidianità, cercando con il suo modo di fare e con le sue parole di lasciare un segno negli altri, di far capire la sua passione e il modo di approcciare allo sport e alla vita. Anche per chi non lo conosceva era facile scorgere un ardore particolare nei suoi occhi, che diventava fiamma quando parlava del suo Nanga Parbat e del Mummery. Quegli stessi luoghi che, adesso, lo hanno consegnato alla storia. Lui che ci ha insegnato che si può essere eroi anche nella sconfitta