Sessanta giorni d'inferno. Otto velocissime settimane che hanno segnato la vita professionale e umana dell'esercito di dipendenti della Asl pontina, chiamato al fronte nella battaglia contro un nemico nuovo di zecca e insidioso come pochi altri. Due mesi che hanno visto la radicale trasformazione dell'organizzazione della macchina sanitaria pubblica locale, ospedaliera e non, abituata a muoversi sui binari di sempre e improvvisamente sbalzata di sella sul terreno accidentato dell'emergenza coronavirus. Un'avventura in pieno corso, piena di affanni e di scoperte, ricca di sorprese, anche buone, e tutta da raccontare,
Dottor Casati, come è iniziata?
«Avevo un incontro in Regione con l'assessore, eravamo separati da un vetro e mi ha fatto segno di entrare. Hai una persona positiva, mi ha detto. Era la signora rientrata da Cremona e residente a Minturno. All'epoca era tutto gestito dallo Spallanzani e l'assessore non sapeva nemmeno come quella paziente fosse finita da Minturno a Roma».
E' iniziata tra incertezza e poca consapevolezza.
«Abbiamo cominciato a capire quello che poteva accadere quando sono arrivati i primi pazienti al Pronto soccorso di Formia provenienti da Fondi. Prima uno, poi due, poi quattro. Una sequenza preoccupante. In quel momento la gestione dell'emergenza al Dono Svizzero è stata esemplare, magari anche fortunata, ma davvero efficace. Il personale ha usato le cautele necessarie, che un mese fa non erano quelle di adesso, né potevamo disporre dei presidi necessari, però non abbiamo avuto personale contagiato».
Siete entrati in guerra a spintoni e calci. E a mani nude.
«E' stato un inizio traumatico, certo. I pazienti covid hanno cominciato ad arrivare da ogni angolo della provincia e non più soltanto da Fondi e non era chiaro, non lo è neppure adesso, come avvenisse il contagio. Poi il flusso ha rallentato e appena compreso che si stava allentando la presa abbiamo deciso di correre ai ripari organizzandoci per essere in grado di sostenere l'urto, prefigurandoci il peggio».
Cosa avete cambiato della precedente organizzazione?
«Praticamente tutto. La prima preoccupazione è stata quella di creare percorsi dedicati e sicuri all'ingresso delle strutture, separando gli accessi dei pazienti covid e no-covid, organizzando il pre-triage esterno nelle tende e mettendo in sicurezza tutti i percorsi interni agli ospedali. Poi abbiamo capito che era necessario trovare posti letto per essere pronti a fronteggiare eventuali impennate di ricoveri da coronavirus. Quindi abbiamo deciso di liberare posti letto al Goretti per trasformarlo in un ospedale covid. All'ospedale Di Liegro di Gaeta, con pochi ritocchi, abbiamo ripristinato il reparto di Malattie Infettive recuperando dodici posti letto. Al Goretti la manovra è stata più complessa: prima abbiamo portato i posti letto di Malattie Infettive da 18 a 24, poi abbiamo liberato il sesto piano trasferendo la Neurologia e la Nefrologia, e anche lì abbiamo recuperato 16 stanze dove poter ospitare i pazienti indefiniti, in attesa di conferme dai tamponi, e tirarli via dal parcheggio del Pronto Soccorso. Ma è stato soltanto l'inizio, perché dovevamo dedicare dei posti letto alla Terapia Intensiva, e la Rianimazione del Goretti era composta di due stanze capaci di 15 posti letto. Nessuna esitazione, una delle due stanze è stata attrezzata per il covid, ma eravamo consapevoli che non poteva bastare. Quindi abbiamo liberato la Chirurgia, l'Urologia, la Chirurgia vascolare e la Neurochirurgia, trasferendo le sedute operatorie all'Icot o al Fiorini di Terracina. Insomma, nel giro di tre settimane abbiamo rivoluzionato ospedali e abitudini consolidate per essere pronti ad affrontare una eventuale ondata di contagi».