Enrico Forte ha vinto proponendo una storia più credibile di quella del suo avversario. Ha indicato una strada che è quella dell’orgoglio, dell’appartenenza al partito, a una tradizione politica chiara, netta, ma anche in grado di mettersi in gioco nuovamente e rinnovarsi. Ha risposto all’antipolitica con la “buona politica”, dimostrando di aver imparato meglio di altri la ricetta di Matteo Renzi. Paolo Galante aveva sulla carta una storia migliore, era un uomo di destra convertito al verbo del Pd, poteva provare a convincere i suoi concittadini partendo da questo mero assunto. E invece ha prima rinnegato l’appartenenza, poi ha sposato il teorema moscardelliano secondo cui “un uomo proveniente da una storia lontana dal Pd era l’unico adatto ad attrarre voti esterni al Pd” e per concludere in bellezza ha commesso errori in serie, impelagandosi in polemiche coi giornali, che poco hanno portato alla sua causa. Non l’ha nemmeno aiutato chi gli è stato intorno, nessuno che gli abbia consigliato di cercare anche il voto d’opinione oltre quello certo del comitato elettorale costruito ad hoc. Galante ha perso, ma non lo ha fatto da solo. Con lui sono usciti sconfitti quelli che gli stavano attorno, a partire dal senatore Claudio Moscardelli. Quest'ultimo ha sostenuto per mesi la necessità di un candidato espressione della società civile, comunque esterno al Pd. L’elettorato Dem ha bocciato la pretesa del senatore di andare a cercare altrove ciò che il Pd poteva trovare in casa propria. Affidarsi a un esterno era come ammettere che il Partito democratico non avesse una classe dirigente all’altezza, uomini e donne in grado di aspirare a svolgere il ruolo di guida del partito nelle comunali 2016.
Ieri alcuni dei sostenitori di Galante si lamentavano sui social (vera e propria agorà di questa campagna elettorale) dell’influenza che alcuni personaggi di centrodestra hanno avuto sul voto, paventando presunti accordi sottobanco che avrebbero favorito Enrico Forte. Cioè, detto in termini semplici: Galante era il candidato che doveva attrarre i voti di destra, ma siccome ha vinto Forte allora devono essere andati a lui e quindi la cosa non va bene. Per smontare queste elucubrazioni di basso lignaggio è sufficiente leggere il dato numerico: 800 voti di scarto sono un gap che non concede alibi. Nessun accordo sottobanco può avere queste cifre, in elezioni come le primarie.
Il Partito democratico dovrebbe piuttosto rallegrarsi della massiccia partecipazione al voto: 6.200 votanti sono un numero eccezionale, considerata una campagna elettorale decisamente poco entusiasmante. E sono la dimostrazione di quanto il Pd sia ancora in grado di catturare consensi e simpatie in città. Un risultato arrivato nonostante l’evanescenza del partito comunale e provinciale, incapaci anche di organizzare un semplice confronto tra i due candidati. Le macchine elettorali di Forte e Galante hanno svolto un lavoro quasi militare di controllo delle truppe, mostrando capacità e organizzazione.
Enrico Forte ha avuto la capacità di costruire attorno a sé un gruppo dirigente valido, fatto di politici esperti e giovani arrembanti. Ha aggregato e già nella campagna per le primarie ha sottolineato che questa non è la sua candidatura, ma quella di una comunità che vuole rivendicare l'appartenenza a una storia ben precisa e da quella storia proporre ai cittadini un patto di fiducia. Perché vincere delle elezioni non è altro che questo: ottenere la fiducia di chi vota. In una città dove l’antipolitica si tocca con mano, in una Latina che per venti anni è stata governata dalla mala-politica del centrodestra, Enrico Forte e il Partito democratico propongono con orgoglio un’alternativa che è fortemente politica. Sarà la strada vincente? Questo lo diranno gli elettori. Quelli del Pd, per il momento, hanno detto sì. E per proseguire il viaggio, è più che sufficiente.