Se ne è andato stasera Bonfiglio Mario Ferrari detto “Palude”. Lascia affranti la moglie Angela, i tre figli, due nipoti, i generi, la nuora e lo stuolo dei parenti, amici e compagni. I funerali si terranno lunedì a Borgo Podgora. Mitico leader operaio della vecchia Fulgorcavi, fino all’ultimo – in perfetta e lucida coscienza – non ha mai perso la forza d’animo, l’ironia, le battute salaci ed il profondo amore per la vita in tutte le sue manifestazioni, ivi comprese il dolore e la fine. A lui va la gratitudine di chiunque lo abbia conosciuto ed a lui – per quel poco che conta – era ispirato l’eroe protagonista dell’omonimo romanzo “Palude” scritto nel 1995, quando ancora stavamo in fabbrica. Il libro iniziava proprio così, e così vorrei ricordarlo:
“Palude - quando era Palude - ti alzava con una mano sola, se non ti stavi zitto. Era un armadio di un metro e novanta, di altezza. Moro, riccio. Occhi neri. Naso imperiale. Sorriso largo. Vita stretta. Era il capo storico degli operai della Fulgorcavi ed è lui il protagonista di questa storia, ma nessuno è autorizzato a pensare che il nome possa avere qualche strana simbologia e che tutta la storia sia inventata. La storia è la stessa che si racconta nei bar della città. E lui lo chiamano da sempre così, senza alcun riferimento alle paludi, o a Latina. Ma solo perché da giovane giocava al calcio. Faceva il portiere. Non aveva nessuna paura dell’uomo: si tuffava sulle gambe dei centravanti e menava cazzotti a rotta di collo. Gli piaceva proprio, tuffarsi. E più c’era fango più gli piaceva. La partita più bella rimane quella contro il Cinthya. Pioveva come Dio la mandava: ha parato l’imparabile, perfino due rigori. Si tuffava in mezzo alle pozzanghere anche quando poteva respingere di piede. Tutto il pubblico, oramai, stava soltanto a guardare lui, che si tuffava pure sugli appoggi del terzino. E gli schizzi arrivavano in tribuna.

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