Tra indagini e processi Don’t touch, una delle inchieste più vaste e più difficili compiute negli ultimi anni sulla malavita di Latina, continua a riservare sorprese. Gli imputati si occupavano anche di recuperare crediti per conto di imprenditori del capoluogo pontino. Un particolare mai emerso sinora, che non risulta presente nella montagna di atti posti alla base del procedimento, alcuni dei quali risalenti anche a quella che è la storia criminale della città più che alla cronaca. Ma un elemento di cui appare convinta la giudice Laura Matilde Campoli, tanto da porlo tra quelli che a suo avviso dimostrano come Costantino Cha Cha Di Silvio, i Travali e gli altri avessero costituito una pericolosissima associazione per delinquere.
Sinora era emerso che la presunta organizzazione criminale sarebbe stata impegnate nelle estorsioni, comprese quelle di abiti griffati ai danni di due negozi del centro cittadino, nell’usura, nel fare affari ricorrendo all’intestazione fittizia di beni, e che avrebbe fatto facilmente ricorso alle armi e alla violenza in generale. Era emerso anche come alcuni imputati avessero cercato agganci con il mondo della politica, i contatti con alcuni rappresentanti delle istituzioni, e come i «soldati» di Cha Cha fossero riusciti ad avere talpe anche tra le forze dell’ordine, poliziotti e carabinieri pronti a fare loro soffiate. Tutti aspetti scandagliati nel processo ai nove che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato dal giudice Campoli, incassando condanne per 50 anni di reclusione, e poi in quello davanti al Tribunale collegiale. Mai però era venuta fuori l’ipotesi che imprenditori di Latina avessero assoldato la gang.
Nelle 49 pagine con cui la giudica Campoli ha ora motivato le condanne, illustrando perché quella di “Don’t touch” sarebbe un’associazione per delinquere, la stessa giudice precisa invece che è provata «l’interessenza dei singoli associati nelle attività di recupero crediti di imprenditori operanti nel capoluogo pontino». Così. Senza spazio a fraintendimenti. L’ennesimo mistero di un’indagine che, come vanno ripetendo da mesi gli inquirenti, è affatto conclusa.