Una storia vecchia, cominciata con la dominazione inglese intorno alla prima metà del 1800: erano stati proprio i sudditi della Corona d'Inghilterra a scoprire in India le proprietà lenitive dell'oppio, e per garantirsene scorte da tenere a portata di mano, i colonizzatori avevano imposto agli indigeni al loro servizio di abbandonare la produzione di ortaggi e cominciare a coltivare papaveri. E quando gli indiani si accorsero di non avere più i loro prodotti da mangiare e nemmeno il denaro per poterli acquistare, non rimase altro da fare che accontentarsi di masticare quel che restava delle piante dopo la raccolta dei bulbi. Non era il massimo, ma almeno sparivano il senso di spossatezza e i morsi della fame.
Oggi, quasi duecento anni dopo, quell'abitudine mai abbandonata è stata importata anche da noi in Italia insieme all'immigrazione dall'India, dal Pakistan e dallo Sri Lanka. Ai padroni inglesi si sono sostituiti i padroni e i caporali italiani, e ai braccianti impiegati anche dieci o dodici ore al giorno nei campi masticare o fumare l'oppio o qualche surrogato serve almeno quanto serviva ai loro antenati.
Sono circa dieci anni che le forze dell'ordine locali hanno preso a sequestrare tra Terracina, Sabaudia e Pontinia bulbi di papavero e altre piante che contengono il principio attivo dell'oppio. Ce ne sono dovunque vi sia una comunità di braccianti indiani, e non è ancora chiaro quali siano i canali di approvvigionamento e chi sovrintenda all'importazione di bulbi e piante. Fatto sta che dove ci sono braccianti dalla pelle olivastra e dove ci sono imprenditori spregiudicati e caporali di supporto, lì c'è oppio, la droga della sopravvivenza.
«Se non prendiamo oppio non ce la facciamo a lavorare sodo» ripetono ossessivamente alla polizia e ai carabinieri i braccianti sorpresi con quantitativi consistenti di oppiacei. E un numero sempre maggiore di braccianti comincia a soffrire delle ripetute operazioni di sequestro di bulbi e piante operate dalle forze dell'ordine.
«Quando restano senza papaveri - spiega il dirigente del Servizio Dipendenze della Asl di Latina, il dottor Carlo De Mei - I lavoratori indiani abituati ad assumere oppiacei masticando o inspirando i vapori di infusi a base di papavero, soffrono di crisi di astinenza, proprio come accade agli assuntori di eroina e morfina. Hanno cominciato a venire da noi, e quando hanno compreso che siamo un servizio che fornisce assistenza e non un presidio di polizia, si è sparsa la voce all'interno delle loro comunità e non hanno più timore di venire a manifestare il loro malessere».
Il risultato è che il numero di casi di braccianti indiani dipendenti da oppiacei sta crescendo a dismisura, malgrado le difficoltà di approccio con i medici del Ser.D.. «Quando possono, vengono accompagnati da un interprete, un loro connazionale che parla italiano, ma è comunque complicato farsi spiegare i sintomi e individuare le cause del malessere. Per quanto la tipologia dei casi sia abbastanza ricorrente, non possiamo esimerci dal valutare ciascun caso come una situazione a sé stante - spiegano ancora al Ser.D. - Sta di fatto che abbiamo almeno cinquanta cartelle mediche intestate a cittadini indiani, e il numero sale abbastanza in fretta. E soltanto una minima parte di questi nuovi pazienti si porta dietro una tossicodipendenza dal Paese di provenienza; gli altri cominciano ad abusare degli oppiacei soltanto qui in Italia, seguendo l'esempio di altri braccianti arrivati prima di loro».
La permanenza degli indiani nei corridoi del Servizio Dipendenze del Goretti è temporanea e in genere molto fugace: spariscono dagli ambulatori appena si sentono meglio, ma soprattutto hanno bisogno di lavorare per mandare i soldi a casa, ai familiari rimasti nei Paesi di origine. Questo tipo di approccio alle cure rende molto difficoltoso l'intervento dei medici del servizio sanitario: non si fa in tempo a capire quale siano la cura migliore e il dosaggio di farmaci più indicato, e il paziente sparisce. Magari per farsi rivedere qualche mese dopo, con una nuova crisi di astinenza da oppiacei.
«E' un'emergenza che dobbiamo affrontare con i pochi mezzi che abbiamo a disposizione - insiste De Mei - I dati statistici ci dicono che la comunità indiana presente sul nostro territorio è composta di almeno quindicimila persone; tra loro si parlano e abbiamo capito che ogni nuovo arrivo è stato indirizzato da noi da un connazionale al quale abbiamo già prestato delle cure. Non c'è bisogno della palla di vetro per capire che da qui a un anno o due avremo centinaia di braccianti indiani da curare».
E come abbiamo già detto, ogni volta che le forze dell'ordine sequestrano qualche partita di bulbi di papavero, l'effetto più immediato è quello di creare situazioni di disagio tra i consumatori, alcuni dei quali non hanno altra scelta che rivolgersi all'ospedale dove sanno di poter avere cure e qualche dose di metadone.
I caporali sanno, capiscono, ma si tengono in disparte. Non vogliono correre il rischio di essere sorpresi in prossimità dell'ospedale per aver scortato un operaio. E non vedono di buon occhio il tam tam tutto interno alla comunità dei braccianti che invita chi ha dei problemi di dipendenza a rivolgersi al Ser.D., perché quello è un segnale di autonomia, e l'autonomia non è quello che serve a chi ha interesse a tenere i lavoratori in uno stato di soggezione che molto spesso si avvicna alla schiavitù.
Ma è presto per tirare conclusioni affrettate sul ruolo dei caporali in questo fenomeno del consumo di oppiacei da parte dei braccianti indiani: intanto quelle sostanze aiutano a tenere il ritmo nei campi, il che vale come suggerimento e come invito alla tolleranza. Saranno gli investigatori a dire, prima o poi, se i caporali abbiano una qualche voce in capitolo anche nell'importazione dei bulbi di papavero, visto che il loro obiettivo primario è quello dello sfruttamento della manodopera sottopagata e spremuta all'inverosimile. E se per farli lavorare dodici ore di fila servono gli oppiacei, benvenuto papavero! Ma questa è un'altra storia da raccontare.