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L'intervista

Ottavio Sicconi, il libraio che ha fermato il tempo

Dal 1959 ad oggi lungo 65 campagne scolastiche nella sua libreria in via Emanuele Filiberto: una lezione di vita (e di cultura)

C’è una porta, nel cuore di Latina, che non conduce soltanto a una delle librerie storiche della città, ma a un luogo di memoria viva, di parole custodite, di mani che sfogliano la carta con rispetto  e cura. Dietro quella porta c’è Ottavio Sicconi, classe 1930: libraio, custode di storie che ha fatto della curiosità una vocazione quotidiana, testimone gentile del tempo che scorre, un tempo che con lui sembra rallentare, quasi fermarsi, per ascoltare.
Novantacinque anni vissuti con la grazia sobria di chi ha saputo far dialogare il passato con il presente, sessantacinque campagne scolastiche, un record in Italia, attraversate con l’entusiasmo intatto del primo giorno,  e una vita che – come un libro raro – si svela pagina dopo pagina, autentica e capace di sorprendere. Il suo volto sereno si riflette nella vetrina del suo negozio in via Emanuele Filiberto, mentre racconta, ricordando con accurata precisione le storie e i nomi, come se la città stessa fosse un vecchio romanzo che conosce a memoria. La sua storia inizia molto prima dell’insegna della libreria, nell’Istria di un tempo perduto, tra il dolore dell’esilio e la forza di ricominciare. Ed è forse proprio lì, in quella frattura della sua storia, che è germogliata la fame di vita e di cultura, il bisogno profondo di raccogliere e custodire ciò che resta. Da allora, Ottavio non ha mai smesso di raccontare – con i libri, amati da sempre in famiglia, e con le parole, attraverso le testimonianze di profugo istriano, rese negli incontri con le scuole. Attorno a lui, cresciuta come un’edera fedele, la passione ha contagiato i suoi figli, Marco e Matteo, ha dato forma a occasioni e luoghi diventati rifugi per chi ama il sapere, ha disegnato una geografia affettiva fatta di scaffali, copertine sgualcite e nuove uscite. Perché ogni cliente è un incontro che vale la pena di essere vissuto. Oggi Ottavio continua ad andare nella sua libreria ogni mattina accompagnato dal figlio Matteo con il quale vive, mentre il figlio Marco la guida con la stessa cura di sempre, una cura e una attenzione che è un marchio di famiglia. E noi, oggi, ci siamo fermati ad ascoltarlo – con gratitudine – come si ascolta chi ha ancora tanto da insegnare, e nulla da dimostrare.

Ottavio, come nasce la sua storia, 95 anni fa?
«Io sono originario di Parenzo, provincia di Pola e città costiera dell'Istria fondata dai Romani. Il nostro cognome, in origine, era Zicovich, poi cambiato dal fascismo in Sicconi. Erano gli anni Venti e fu il Comune a imporlo, come a tante famiglie istriane, ma dietro quel nome resta la mia storia. Successivamente, quando i tedeschi se ne andarono, l’1 maggio del 1945, i partigiani di Tito occuparono i nostri paesi costieri, e l'Istria fu assegnata alla Jugoslavia, tranne Trieste e Pola che rimasero agli alleati. Poi nel 1947 anche Pola finì alla Jugoslavia. Come italiani decidemmo di andare via dalle terre occupate ed emigrare nel territorio italiano. Arrivammo a Latina nel 1948»

Quali furono i momenti più difficili di quegli anni da profugo e cosa ricorda dell’arrivo a Latina?
«Ricordo  dapprima l’arrivo a Trieste, dove restammo dieci giorni ricoverati in un magazzino della stazione e poi a Udine, al campo di smistamento profughi, dove arrivammo scortati dalla polizia per ragioni di sicurezza.  A Trieste ricordo che i militari britannici ci fecero spogliare e ci disinfettarono, c'era un clima di attesa. Erano tante le famiglie che aspettavano che si liberassero un posto nelle altre città italiane. Noi siamo stati fortunati, un giorno dissero che c’erano dei posti liberi a “Latinia” — storpiarono il nome. Mio padre, Matteo, granatiere di Sardegna che aveva svolto il servizio militare a Roma venti anni prima, accettò subito: “È vicino Roma, il clima è buono”, disse. Così arrivammo a Latina, dopo un viaggio di venti ore, su un vecchio camion Dodge, un residuato bellico. Arrivammo  in questa città in cinque, mio padre, mia madre, io e i miei fratelli Anna Maria e Mario e ci sistemarono nell’edificio ancora incompleto  della ex caserma GIL (Gioventù italiana del Littorio), in via Umberto I. C'erano solo muri separati da tende e un palco di cemento.  D’inverno il fango, d’estate la polvere. Latina era ancora segnata dai bombardamenti.

Lei è stato allievo di Norma Cossetto, una delle vittime delle Foibe. Che ricordo ha di lei?
«Sì, ho avuto la fortuna di essere suo allievo nell’anno scolastico 1942-43, in tempo di guerra. Norma aveva solo ventitré anni, studiava Lettere all’Università di Padova ed era fidanzata con un ufficiale al fronte. A Parenzo insegnava pur non essendo  ancora laureata, perché aveva preso il posto di un docente chiamato alle armi. Sempre allegra, disponibile, generosa. Dovevamo rivederla a settembre, ma non fu così e ho spesso pensato a lei, a quel periodo terribile in cui ci furono arresti, infoibamenti, persecuzioni e veniva cancellato tutto ciò che era un simbolo italiano.

Come sono stati i primi anni a Latina?
«Duri. La città era ferita dalla guerra, le case portavano le tracce dei bombardamenti. Per un periodo siamo stati a Cisterna ma la nostra famiglia tornò a Latina quando mio padre trovò un lavoro da portinaio grazie al signor Giovanni Giacomini, che aveva appena finito di costruire il palazzo dove poi sorgerà il cinema. Così siamo rimasti qui.»

Come nacque l’idea di aprire la prima libreria della famiglia Sicconi?
«Tutto cominciò con mia sorella Anna Maria, che lavorava nella Libreria Minerva di Antonio Capurso, in via Eugenio di Savoia. Il signor Capurso veniva da Roma e aveva alcuni clienti a Latina, città in espansione dove la prima libreria ad aprire era stata Raimondo. L’esperienza di mia sorella alla Minerva fu preziosa: lei ci insegnò come funzionava quel mondo e nel 1959 decidemmo di aprire la Libreria Sicconi in Corso della Repubblica, nel palazzo Senesi, accanto alla trattoria che poi divenne la farmacia San Marco. La inaugurammo il 7 dicembre 1959, con la benedizione di don Carlo Torello. Mi ricordo ogni dettaglio di quel giorno e l’entusiasmo che provavamo. Poi, nel 1965, mio fratello Mario aprì la Libreria Manzoni.  Io nel frattempo lavoravo alle Poste, la mattina, e in libreria il pomeriggio. La licenza era a nome di mia madre, Rosa. Dopo venticinque anni sono andato in pensione e mi sono dedicato completamente alla libreria. Nel 2000 ci siamo trasferiti in Via Emanuele Filiberto, dove c’era stato fino a poco prima il negozio di alimentari dei fratelli Lemma».

Ricorda un momento particolarmente emozionante di quegli anni?
«La prima campagna scolastica del 1960. Non avevamo esperienza, ma tanto entusiasmo. Ogni libro consegnato era una piccola vittoria. Oggi siamo arrivati alla sessantacinquesima campagna scolastica. A me piace venire qui in libreria ogni giorno, stare con i miei figli, chiacchierare o salutare i clienti”.

Come è nata la storia d’amore con sua moglie Angela?
«Angela lavorava come giovane ragioniera in uno studio notarile a Roma. Una collega, esule da Fiume, abitava vicino alla libreria e la invitava a passare i fine settimana a Latina. Mia moglie amava leggere, veniva spesso in libreria. Io le consigliavo i libri. Un giorno l’ho invitata al mare, e da lì è cominciato tutto».
C’è un momento della sua vita che ama ricordare e che porta sempre con sé?
«La conoscenza di mia moglie, che non c’è più dal 2008, ma che è ancora con noi in ogni cosa. È stata la mia compagna in tutto, nel lavoro e nella vita».

Cosa rende speciale la libreria Sicconi, ancora oggi?
«Il segreto è semplice: esserci sempre. Ascoltare le persone, procurare i libri, creare occasioni culturali. E il segreto è amare il libro, anche il libro vario, siamo stati sempre a disposizione del pubblico. Così abbiamo mantenuto la clientela, dall'operaio che amava leggere all'avvocato o al funzionario che voleva documentarsi. Siamo sempre stati una realtà piccola, ma con un forte legame con il territorio e i suoi abitanti, ed è bello ancora oggi vedere tornare i piccoli scolari di un tempo come amici e lettori di oggi. La libreria è una famiglia, e la mia fortuna sono i miei figli, Matteo con cui vivo e Marco, che porta avanti questa attività con passione.

Come trascorre oggi le sue giornate?
«Mi sveglio alle sette, al suono della prima campana della chiesa San Marco, bevo il caffellatte e poi arrivo in libreria. Parlo con i rappresentanti, controllo qualche novità. Mi piace  tenermi attivo, non sono di quei caratteri chiusi, mi piace uscire e stare tra le persone».



«Di stare con i miei figli, di aiutarli, di sentirmi ancora utile. E di viaggiare, come già faccio: ogni anno torno a Parenzo, dove sono nato. Là ho ancora parenti di origine slava, con cui mantengo un legame profondo. Quando arrivo, è come tornare a casa, ma è bello anche sapere che al ritorno ho un’altra città che sento ‘mia’ che mi aspetta».  

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