Cerca

Il personaggio dell'anno

Mi chiamo Satnam e sono morto ma vivo per chi crede nei diritti

La storia del bracciante senza contratto e senza permesso di soggiorno ferito e abbandonato. Racchiude tutto. C’era un prima e ora c’è un dopo

Mi chiamo Satnam e sono morto ma vivo per chi crede nei diritti

«Mi chiamo Satnam Singh, sono nato in India il 5 gennaio del 1993. Sono arrivato in Italia alcuni anni fa. Ho lavorato prima vicino Napoli e poi vicino Latina, sempre in campagna. Lavoravo nei campi come bracciante agricolo. Non ho il permesso di soggiorno, non ho il contratto di lavoro. Sono rimasto gravemente ferito da un avvolgiplastica e ho perso un braccio. Il mio datore di lavoro mi ha caricato su un furgone e portato a casa dove vivo con Soni, la mia compagna, e mi ha lasciato lì. I vicini di casa hanno chiamato i soccorsi e mi hanno portato in ospedale a Roma con l’elicottero, poi sono morto». Se parlasse direbbe questo Satnam Singh. Se fosse qui racconterebbe così gli ultimi metri della sua vita, come se fosse preso a sommarie informazioni e le parole diventassero dichiarazioni da riempire pagine e pagine di un verbale.


La sua storia fino al pomeriggio del 17 giugno del 2024 è di ordinaria illegalità, protetta dalla siepe dell’ipocrisia. Perchè alla fine fa comodo quasi a tutti. Sapere sì ma non dire troppo. Fermarsi un attimo prima. Conviene.


Il pendolo dell’esistenza di Satnam oscilla tra sudore e fatica, ordini e compiti, euro e ore che si sporcano con la morte. E’ una vita semplice, i limiti della dignità racchiusa tra i metri quadrati di casa e della terra dove lavora. La sua è una non vita di una persona che di fatto è come se non ci fosse in Italia e che quindi non ha diritti. Un invisibile. Si mescola e confonde insieme a quella di molti connazionali e colleghi di lavoro, nero. Sono stati definiti impropriamente «gli invisibili» ma non lo sono. Non lo possono essere a osservare le strade che tagliano le campagne dell’Agro Pontino tra Aprilia e Latina, fino al Circeo. Basta alzare lo sguardo e andare oltre la siepe, sì dell’ipocrisia, andare verso i campi, vedere oltre le serre. Ci sono loro e l’infinito. Pedalano in bicicletta la mattina presto oppure prima del tramonto. Vanno e vengono dal lavoro. Non li puoi non vedere in certi orari con la schiena abbassata, a raccogliere pomodori, melanzane, zucchine e tutto quello che c’è da prendere. Li rende invisibili l’indifferenza, l’innato egoismo di ognuno di noi. Sapevamo che esistevano ma è come se non esistessero. La fine brutale di Satnam Singh ha rappresentano una forte linea di confine. C’era un prima e ora c’è un dopo. Lo hanno chiamato Effetto Satnam su tutto: dai contratti, ai controlli, alla sicurezza. La parola chiave è una: regole. E’ una morte che ha toccato corde emotive e coscienze e ha sollevato l’attenzione sul problema del lavoro, dello sfruttamento, della tutela dei diritti dei lavoratori e degli stranieri. Satnam è la bandiera da sventolare o il manifesto da attaccare quando si pretende un diritto, quando si chiede «respect», rispetto. L’unica immagine che abbiamo è la foto tessera del suo passaporto. Quella foto è un simbolo ed è possibile leggerla in tutte le lingue del mondo. Non c’è bisogno di scrivere altro e non serve una traduzione. Quella foto vuol dire: diritto.
Di Satnam Singh si sa pochissimo, ma quel poco è sufficiente: aveva la famiglia in India, la compagna Soni qui con lui. Erano arrivati insieme in Italia alcuni anni fa. Una casa a Borgo Bainsizza, la bicicletta, i sogni accarezzati che diventano nuvole. Sono lassù e non puoi ancora afferrarli. «Voglio una famiglia», aveva confidato ad un vicino di casa, sembrava la promessa di una felicità. Poteva essere un bel romanzo da scrivere, l’Italia, il lavoro, l’integrazione i figli, l’orgoglio di avercela fatta e guardare con occhi leggeri i sacrifici. Bella da prendere come esempio. La sua, quella di Satnam.


E invece non c’è il lieto fine nella storia «disumana» di Satnam, usando le parole del giudice che ha mandato in carcere Antonello Lovato, il suo datore di lavoro che lo ha portato a casa e non in ospedale, lasciando il braccio che aveva perso in una cassetta di plastica. Ma è successo davvero? La risposta è sì.
Satnam è il suo nome di battesimo ma dopo la sua morte ha anche un altro significato. Sì: c’è un prima e ora c’è un dopo. Adesso vuol dire diritto: ad un lavoro dignitoso e alla vita. Firmato Satnam.

Edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione