Il fatto
12.01.2024 - 11:00
In oltre 450 pagine i giudici della Corte d'Appello di Roma ricostruiscono il processo «Alba pontina», la prima inchiesta condotta a Latina dove è stata contestata ad alcuni imputati appartenenti al clan Di Silvio - riconducibile ad Armando «Lallà» l'aggravante del metodo mafioso. Nelle motivazioni della sentenza di condanna - emessa lo scorso ottobre - i magistrati analizzano i ruoli, le modalità delle condotte contestate: dalle estorsioni, fino allo spaccio di droga. I giudici si erano pronunciati nei confronti degli imputati condannati in primo grado dal Tribunale di Latina nel luglio del 2021 che aveva accolto le richieste dei pm Luigia Spinelli e Claudio De Lazzaro, titolari dell'inchiesta.
Tra le pene più alte quella di 20 anni nei confronti di Armando «Lallà» Di Silvio, considerato il leader e poi 13 anni e 4 mesi per la moglie Sabina De Rosa. Rispetto ai 65 anni complessivi del processo di primo grado per tutti gli otto imputati, le pene erano state ridotte e arrivano ad un totale di 53 anni.
«La fama e il prestigio criminale autonomi dell'associazione emergono in primo luogo - hanno scritto i giudici in un passaggio delle motivazioni - dalla circostanza che i singoli affiliati si presentano alle vittime delle estorsioni con nome e cognome ovvero senza alcuna cautela per impedire la loro identificazione ed evocando anche il clan, dimostrando di essere consapevoli della capacità intimidatoria dell'appartenenza alla famiglia Di Silvio e che le vittime non avrebbero denunciato i fatti per paura».
I magistrati hanno aggiunto anche un altro elemento rilevante: «Può considerarsi che il clan costituisce un'associazione di tipo mafioso che sfrutta la fama criminale della famiglia affermatasi nel tempo per compiere attività illecite avvalendosi dell'intimidazione ingenerata nelle vittime che deriva dalla forza del gruppo ben nota all'esterno. L'associazione possiede una solida struttura stanziale sul territorio che si dirama oltre la sede operativa di Campo Boario»
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