Giudiziaria
10.07.2024 - 13:30
Ricorsi rigettati. Le condanne sono definitive per un totale complessivo di 53 anni nei confronti degli otto imputati. E’ terminato in Corte di Cassazione - davanti alla sesta sezione - il processo Alba pontina che aveva portato alle condanne nei confronti dei componenti del clan Di Silvio, riconducibili al gruppo capeggiato da Armando Di Silvio detto «Lallà». Contestata dalla Dda l’associazione per delinquere con l’aggravante del metodo mafioso. Tra gli altri reati lo spaccio, l’estorsione, la violenza privata, l’intestazione fittizia di beni. Erano state queste le condanne: 20 anni per Armando detto «Lallà» Di Silvio, ritenuto al vertice del sodalizio di Campo Boario, 13 anni e 4 mesi per la moglie Sabina De Rosa che ieri mattina si è costituita per l’ordine di esecuzione (dovrà scontare 10 anni), 5 anni per Angela Di Silvio, 1 anno e nove mesi per Giulia Di Silvio, 2 anni e nove mesi per Francesca De Rosa, 3 anni e quattro mesi per Federico Arcieri, 4 anni per Genoveffa Di Silvio, per Tiziano Cesari due anni. Nei giorni scorsi erano stati discussi i ricorsi presentati dal collegio difensivo degli imputati composto dagli avvocati Angelo e Oreste Palmieri, Cesare Placanica, Luca Giudetti, Emiliano Vitelli. Nel suo intervento il Procuratore generale aveva chiesto il rigetto dei ricorsi. Ieri la decisione: la sentenza è diventata definitiva ed è stata riconosciuta l’aggravante mafiosa. Anche nell’altra costola del procedimento Alba pontina per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato la Corte di Cassazione si era pronunciata e la sentenza era diventata definitiva. Le indagini degli investigatori della Squadra Mobile di Latina erano state coordinate dai pubblici ministeri Luigia Spinelli e Claudio De Lazzaro, le misure restrittive erano state emesse dal gip Antonella Minunni nel giugno del 2018.
Tre anni dopo, nel luglio del 2021, la sentenza emessa dal Collegio Penale presieduto dal giudice Gian Luca Soana, nell’ottobre del 2023 la Corte d’Appello aveva lasciato inalterata la decisione dei giudici di Latina confermando il quadro accusatorio con una lieve riduzione per alcuni imputati. Una volta depositate le motivazioni le difese avevano presentato il ricorso e la Suprema Corte si è pronunciata. «La straordinaria influenza criminale del clan mafioso e la forza intimidatrice hanno compromesso la reputazione e l’identità storica sia del Comune che della Regione Lazio», avevano messo in luce le parti civili nella richiesta presentata. Tra le parti civili il Comune di Latina rappresentato dall’avvocato Francesco Cavalcanti, la Regione Lazio assistita dall’avvocato Carlo D’Amata e l’Associazione Caponnetto rappresentata dall’avvocato Licia D’Amico. Riconosciuto un risarcimento di 40, 30 e 10mila euro. «Può considerarsi che il clan costituisce un’associazione di tipo mafioso che sfrutta la fama criminale della famiglia affermatasi nel tempo per compiere attività illecite avvalendosi dell’intimidazione ingenerata nelle vittime che deriva dalla forza del gruppo ben nota all’esterno», era stato un passaggio delle motivazioni della Corte d’Appello. Una ricostruzione condivisa dalla Cassazione.
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