Oscilla tra il 91 e il 96% la quota di domande di cassa integrazione ordinaria e in deroga per il covid accolte sinora. La quota residuale respinta o sospesa riguarda una serie di imprese che non sono riuscite a sanare le loro posizioni circa i rapporti di lavoro in essere, un numero di irregolarità che si temeva fosse addirittura più alto e che sta penalizzando alcune migliaia di lavoratori in tutto il Lazio, regione in cui l'erogazione complessiva al 4 giugno ha superato i 4,3 milioni con 423mila domande. Una percentuale che supera i due terzi di questi lavoratori proviene dal settore del commercio e dei servizi ad esso collegate (logistica e pulizie) e di questi oltre il 60% sono donne, le quali dunque anche questa volta sono quelle che continuano a percepire il reddito più basso e ad aspettare di più un rientro in azienda che, allo stato, si allontana. Le associazioni di categoria, a loro volta sollecitate da moltissimi iscritti, premono per una ulteriore quota di cinque settimane di cassa integrazione da aggiungere al massimo delle nove settimane consentite per il periodo Covid.
Ciascuna impresa poteva decidere come spalmare quelle settimane, persino a partire da fine febbraio, cosa che hanno fatto numerose imprese del commercio ambulante, uno dei primi comparti a chiudere definitivamente per l'emergenza Covid. C'è sullo sfondo un altro termine temporale cui si guarda con particolare attenzione ed è la data del 16 agosto, giorno ultimo prima del quale non è possibile effettuare licenziamenti.
Di disoccupati nuovi ce ne sono, in verità, già adesso ma sono quelli senza un contratto di lavoro dipendente che, semplicemente, non hanno avuto il rinnovo della collaborazione a causa della crisi. Per i dipendenti, qualora non ci fossero altre formule di sostegno al reddito (in pratica proroghe sulla cassa integrazione) si aprirebbe un ampio margine di rischio effettivo di licenziamenti per il mancato riavvio delle attività di molte imprese.