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L'intervista

Pablo Trincia: «Voglio sentire la storia addosso, insieme al pubblico»

Il giornalista porta per la prima volta sul palco una storia inedita di malagiustizia. «Il teatro è una vera emozione»

Pablo Trincia: «Voglio sentire la storia addosso, insieme al pubblico»

Pablo Trincia

Sabato 13 dicembre Pablo Trincia debutta a Latina con la prima nazionale del suo spettacolo teatrale. Per la prima volta, il giornalista, podcaster e autore di alcune tra le più importanti inchieste narrative italiane porta sul palco una storia inedita di mala giustizia. Un passaggio significativo, professionale e umano, che approfittiamo per approfondire con lui. “L’Uomo Sbagliato – Un’inchiesta dal vivo”, il progetto teatrale di Pablo Trincia, sta registrando un entusiasmo senza precedenti: Milano e Bologna hanno bruciato in pochi giorni tutti i biglietti disponibili, con il sold out al Teatro Arcimboldi (2 febbraio 2026) e all’Europauditorium (9 gennaio 2026), spingendo la produzione ad annunciare nuove repliche e ad ampliare il calendario della tournée, che conferma il tutto esaurito in molte città italiane. La tournée, che partirà da Latina il 13 dicembre 2025, attraverserà i principali teatri italiani, accompagnando il pubblico dentro una storia oscura e una verità scomoda. Un successo che dimostra ancora una volta l’intuito e la bravura di Vincenzo Berti e Gianluca Bonanno della Ventidieci, tra i produttori di questo spettacolo.


Abbiamo incontrato Pablo Trincia durante le prove dello spettacolo.
Partiamo dal debutto teatrale: è la prima volta che arrivi su un palco. Come cambia la narrazione rispetto a podcast e libri?
«Cambia tanto, perché il podcast è tutto molto scritto, molto preciso, molto montato. C’è poco margine di errore: se sbagli rifai una frase, ti correggi, se ti distrai aggiusti. Il teatro no. Il teatro ha bisogno del corpo, della presenza, del movimento, della posizione. È molto impegnativo, molto stancante – e ancora non ho iniziato davvero.Però per me era un passaggio necessario. Volevo uscire dal gabbiotto di registrazione, da quel box in cui stai da solo, parli da solo e non vedi nessuno. Volevo capire che effetto avesse una storia sulla gente, l’impatto immediato. Di solito il feedback ce l’ho da DM, mail, commenti. Ma sentirlo fisicamente, davanti a me, è un’altra cosa. Anche per il pubblico cambia tutto».

Porti in scena una storia del tutto inedita. Di cosa si tratta senza spoilerare troppo?
«È un grande caso di malagiustizia. È un tema che ho trattato tante volte e che trovo affascinante e terrificante allo stesso tempo: il rapporto tra l’uomo e la macchina burocratica. L’uomo schiacciato dalla giustizia quando la giustizia diventa irrazionale, delirante. Quando invece dovrebbe rappresentare equilibrio, ponderazione. È una storia quasi sconosciuta, ambientata in Puglia negli anni ’90. C’è di mezzo un serial killer.E mi piace che sia un crossover tra teatro, podcast e documentario. Chi viene trova uno schermo, immagini, documenti reali, video, atti giudiziari. È un tentativo di creare un linguaggio nuovo».

I materiali che utilizzi sono originali?
«Sì, sono materiali in gran parte inediti. È una storia che anni fa venne raccontata brevemente nei telegiornali, ma oggi non ce n’è memoria. Sono documenti estratti dai fascicoli, video della scena del crimine, atti ufficiali. La differenza è che qui vengono raccontati attraverso una struttura e una scrittura. C'è un lavoro enorme dietro».

Quanto è stato complesso strutturare una vicenda così articolata?
«Moltissimo. Tutti i lavori di questo genere richiedono studio e ricerca, ma questa storia è particolarmente difficile perché riguarda tanti omicidi, tanti casi, tanti processi. Non è lineare: è una storia ad alveare. Dovevi trovare un punto di vista iniziale chiaro e rinunciare ad alcune cose pur di restituire un quadro intelligibile. Inizialmente volevamo farne un documentario per Sky, ma era troppo difficile, troppe complicazioni. Abbiamo optato per il caso Bergamini. Poi, quando è nato il progetto teatrale, abbiamo capito che per il teatro questa storia poteva funzionare davvero».

Sei stato uno dei primi a portare il giornalismo investigativo nel podcast. Quando hai capito che quella era la strada?
«Nel 2014, quando uscì “Serial” in America. Aprì le porte a tanti che si sentivano stretti nella televisione: tempi rigidi, minutaggi impossibili, sintesi forzate.Con il podcast fai un film nella testa delle persone: è cinema a basso costo. Non hai maestranze, produzioni, piattaforme da convincere. È accessibile, democratico, bello.Sono stati 10 anni intensi, 10 serie. Poi ho sentito l’esigenza di cambiare. Il teatro era la fase successiva».

“Veleno” ha segnato un punto di svolta. Come ti sei imbattuto in quella storia?
«Stavo cercando un cold case, senza sapere bene cosa cercare. Una ricerca casuale online. Quando sono entrato nella storia ho capito che mi stava chiamando. Parlava di famiglie distrutte: io all’epoca ero padre di due bambini piccoli. L’ho sentita come una missione. Ogni storia, al di là del piacere del racconto, deve chiamarti emotivamente: devi avere rabbia, empatia, bisogno di giustizia. È quello che ti dà la spinta».

Molte tue inchieste mettono in luce storture giudiziarie. Perché sembra sempre difficile correggere gli errori?
«Gli errori accadono ovunque, non solo in Italia. Leggevo “The Innocent Man” di Grisham mentre preparavo lo spettacolo. Storie identiche. Il vero problema non è l’errore, ma il fatto che nessuno lo ammetta.Si preferisce salvare reputazione e carriera invece che ammettere di aver rovinato la vita a qualcuno. È un tratto oscuro del genere umano. L’onestà di dire “Ho sbagliato” non esiste quasi mai. Ed è assurdo: sarebbe un atto alto, profondamente umano, ma non succede».

Qual è la storia che ti ha coinvolto di più emotivamente?
«“Veleno”, perché tornavo a casa e vedevo i miei figli: era devastante. Ma anche questa del nuovo spettacolo. Ogni volta che provo faccio fatica a trattenere le emozioni. Mio nonno materno è stato incarcerato per le sue idee, torturato e morto in isolamento. È stata una tragedia familiare enorme. Le storie di malagiustizia le sento mie. Sono un problema universale, esistenziale».

Al debutto sarai davanti al pubblico, non più a un microfono. Cosa ti aspetti?
«È un salto nel vuoto. Immagino uno scambio, un dialogo. Ogni teatro avrà la sua temperatura, ogni pubblico la propria sensibilità. Bisognerà creare ogni volta una fiducia reciproca. Io cercherò di coinvolgere le persone, di farle sentire dentro la storia. Ma finché non accade, non lo posso prevedere».

E allora ci vediamo a teatro. Un esperimento narrativo, un debutto e un’indagine inedita. Trincia porta sul palco la materia viva che più ha segnato la sua carriera: la giustizia quando sbaglia, e le vite che ne restano schiacciate. E se è vero che le storie devono essere ascoltate, questa volta saranno anche guardate. Con un impatto immediato: senza cuffie, senza filtri, davanti alla storia nuda.
Biglietti disponibili su TicketOne e nei circuiti autorizzati.

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