Prima di giudicare il nuovo, il diverso, l'immigrato ricordate un po' di Storia di questo territorio. Riassunto in poche parole è questo il senso dell'omelia del primo dell'anno pronunciata dal Vescovo di Latina. Un intervento dedicato quasi esclusivamente al tema dei migranti, sia quelli che arrivano per lavorare che coloro che scappano dalle guerre. Monsignor Mariano Crociata scende dunque in campo sul solco di quanto già fatto dal Papa e sgombera subito il campo dalle facili polemiche, più che possibili in una città come Latina, dove negli ultimi mesi la politica dell'accoglienza è stata fatta a pezzi.
«Accogliere, proteggere, promuovere, integrare», le parole d'ordine dell'omelia. E poi ci sono le cifre: circa 250 milioni di migranti, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati.
«Il tema migranti - ha detto Monsignor Crociata - è uno di quelli più difficili da portare a un tavolo di discussione, di questi tempi. Suscita forti reazioni emotive, non solo contro ma anche a favore, impedendo di svolgere una riflessione pacata e oggettiva. Naturalmente, non abbiamo nessun interesse ad alimentare polemiche inutili e a metterci sulla scia del chiacchiericcio di cui sono pieni i mezzi di comunicazione. Non vogliamo in alcun modo dare spazio a una informazione approssimativa o falsa, e nemmeno alla denigrazione o, all'opposto, al vittimismo indulgente. Credo sia nostro interesse cercare di capire il senso di ciò che sta accadendo, per rispondervi in maniera responsabile e adeguata. La prima riflessione che vi propongo è di carattere storico. Il nostro territorio, sia diocesano che provinciale, è per circa la metà il risultato di ondate cicliche di immigrazione, di differente entità numerica, che durano fino ad oggi. Si comincia negli anni trenta del secolo scorso con i veneti e i friulani e poi con gli emiliano-romagnoli; subito dopo la guerra è la volta dei giuliano-dalmati dell'Istria, a cui risale il Villaggio Trieste, ma anche di popolazione dal Sud della provincia e dal frusinate; negli anni cinquanta e sessanta è la volta di immigrati dalle regioni meridionali, ma anche di quadri e dirigenti dal Settentrione; dagli anni cinquanta a tutti gli ottanta il campo Rossi Longhi accoglie profughi dell'Europa dell'Est, da oltre la cosiddetta Cortina di ferro, e poi anche dall'Estremo Oriente. Al 1970 risale l'ondata di profughi di origine italiana dalla Libia, mentre negli anni Ottanta è la volta dei sikh del Punjab, la cui comunità è diventata la seconda per grandezza in Italia. Per qualcuno può non essere facile riconoscerlo, ma la realtà è che qui siamo tutti degli immigrati. Ciò non significa che bisogna accettare passivamente ciò che accade e che non ci vogliano criteri per affrontare le nuove ondate di immigrazione o che le istituzioni abbiano mancato di dare segnali importanti in tal senso. Significa invece che più che chiudere gli occhi e pensare di alzare steccati e di trincerarsi entro recinti di fronte a ciò che avanza, illudendosi di proteggersi dal cambiamento e di trovare così sicurezza, bisogna affrontare la realtà. Anche perché, rimuovere i problemi è il modo migliore per farli diventare più grandi di quanto già non siano. Da questo punto di vista, la situazione è paradossale, perché di fatto il nostro è un Paese nel quale l'integrazione sociale, economica e culturale di tanti stranieri, è un fatto non solo pacifico ma benefico e, ciononostante, da molte parti si proietta un fotogramma ormai largamente datato, poiché una Italia solo di italiani non esiste più da tempo, dal momento che con noi vivono quasi cinque milioni di stranieri. Razionalizzare e gestire è la vera esigenza, non esorcizzare e demonizzare. Non esorcizzare e non demonizzare significa affrontare innanzitutto il nodo psicologico che ci soffoca. Tante nostre paure non sono senza fondamento: la nostra vita è sottoposta a una serie continua di cambiamenti, tutto si fa più precario, le minacce sembrano aumentare, la stessa sicurezza economica traballa anche là dove erano state raggiunte posizioni ritenute stabili, per non parlare delle trasformazioni tecniche e scientifiche a tutti i livelli. La questione immigrati non può essere affrontata isolandola dalle altre che ci assillano. In particolare nel nostro territorio essa equivale ad affrontare la questione che noi abbiamo con la nostra storia e con la nostra configurazione attuale. Il carattere composito della popolazione pontina presenta sia problemi che potenzialità. La cosa più grave che ci sta capitando è l'indifferenza nella quale cade questa massa incommensurabile di dolore e di disperazione. Da qui bisogna ricominciare, dal recupero della sensibilità umana elementare, dalla capacità di sentire pena e compassione di fronte al dolore indicibile di tanti disperati».