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Operazione Scarface, le motivazioni dei giudici: «Il presidio militare del clan»

Il giudice: hanno rimarcato il loro potere sul territorio facendo riferimento al controllo di intere zone della città

Operazione Scarface, le motivazioni dei giudici: «Il presidio militare del clan»

Potere, spendita del cognome, atteggiamento reticente delle vittime che hanno preferito mentire di fronte alle domande degli inquirenti. Sono alcuni elementi chiave che descrivono le condotte del clan Di Silvio riconducibile all'ala di Giuseppe Romolo. Lo scrive il giudice di Roma Aldo Giannetti nelle oltre 300 pagine delle motivazioni di condanna del processo Scarface. Le pene complessive per i 19 imputati superano i 160 anni. Nelle motivazioni viene ripercorsa l'articolata inchiesta della Squadra Mobile di Latina nata nella primavera del 2019 a seguito di un brutale pestaggio di un giovane avvenuto in piazza Moro. «La ricostruzione degli episodi - scrive il giudice - è stata agevolata dal contributo offerto dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Agostino Riccardo e Renato Pugliese che hanno fornito importanti elementi sulla Guerra criminale tra i quali assume primaria importanza l'omicidio Moro che ha costituito il fulcro di una serie di dinamiche criminali». Nelle motivazioni viene rimarcato il peso delle dichiarazioni rilasciate da un altro collaboratore: Emilio Pietrobono.

«Ha attualizzato la propria narrazione avente ad oggetto le vicende dell'associazione Di Silvio a partire dal 2015». E' indicativa l'analisi delle condotte estorsive nei confronti di imprenditori e ristoratori anche della provincia di Roma. Una delle parti offese minacciata al telefono da Costantino detto Costanzo Di Silvio, davanti agli inquirenti ha assunto un atteggiamento reticente, mentre un collaboratore del titolare del ristorante ha invece negato di conoscere nelle fotografie mostrate dalla polizia quelli che erano i clienti abituali dell'attività. «Non deve sorprendere che le vittime una volta interrogate dalla polizia giudiziaria hanno preferito mentire e minimizzare malgrado il ripetersi di anni di soprusi piuttosto che confermare quanto già emerso altrove». Ilgiudice ha ricostruito anche la rete di pusher sulla scorta delle intercettazioni ambientali in carcere. «Appare provato che gli imputati sotto la figura di Giuseppe detto Romolo Di Silvio a partire dal settembre del 2015 abbiano agito in accordo tra loro per la commissione di un numero di reati in plurimi settori, compreso quello delle estorsioni ai danni di vari operatori commerciali di Latina e dell'intera area geografica pontina. L'intimidazione alle vittime si è alimentata con i seguenti elementi ricorrenti tra cui: il parlare sempre al plurale per fiaccare l'interlocutore, l'interscambiabilità dei ruoli, la spendita del cognome (spesso ad alta voce e ripetuto più volte) e della città di provenienza e poi anche i riferimenti ai precedenti giudiziari dei membri della famiglia».

Infine il giudice ricorda che: «Gli appartenenti al clan Di Silvio hanno rimarcato il loro potere sul territorio facendo riferimento al controllo di intere zone della città, in particolare la zona dei pub, la zona di piazza del Quadrato, sia con riguardo al settore criminale dello spaccio di stupefacenti sia con riguardo alle attività estorsive, presidiando militarmente alcune parti della città tanto che alcune persone sentite a sommarie informazioni hanno affermato di non frequentare più determinate zone per evitare di incontrarli e subire vessazioni». La sentenza di condanna era stata emessa lo scorso 26 gennaio e la prospettazione dell'accusa era stata condivisa dal gup. Le difese adesso presenteranno ricorso in Corte d'Appello. Per altri imputati invece che hanno scelto il rito ordinario il processo è in corso a Latina.

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