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L'intervista

La criminologa Marano: "Femminicidi, quei segnali nascosti che bisogna imparare a leggere"

La criminologa e psicologa forense analizza i profili degli autori di violenza

La criminologa Marano: "Femminicidi, quei segnali nascosti che bisogna imparare a leggere"

Gabriella Marano è psicologa, criminologa e consulente in diversi casi giudiziari. Da anni si occupa di violenza di genere, analizzando le dinamiche psicologiche e criminologiche che portano a episodi drammatici come i femminicidi. Volto noto ai telespettatori di Rete4, è stata a Latina per l’evento “Non chiamatelo amore” dove c’è stata una serata con raccolta fondi per le vittime di femminicidio.

Dottoressa Marano, lei si occupa sia dell'aspetto criminologico che di quello psicologico. Quanto è importante scavare nel passato dell'aggressore per capire la dinamica che porta a un femminicidio?
«Sicuramente è un passaggio fondamentale. Quando parliamo di femminicidio, o più in generale di questi delitti efferati, occorre distinguere tra natura e cultura. L’aspetto culturale riguarda il contesto sociale in cui viviamo, impregnato di modelli patriarcali, mentre quello naturale rimanda alla personalità disturbata di certi soggetti. E queste personalità si strutturano nella famiglia, che è l’ambiente decisivo per lo sviluppo identitario. Scavare nel passato serve a comprendere le radici di tali disturbi».

Lei ha detto che spesso questi casi avvengono in circostanze insospettabili. L’ “insospettabile” si comporta diversamente rispetto a chi ha precedenti violenti?
«Sì, ha una storia diversa da raccontare. Il femminicidio di Giulia Cecchettin ne è un esempio: la linea di confine tra normalità e dramma era sottilissima. Dobbiamo imparare a leggere i segnali invisibili che pure ci sono. Spesso gli autori sembrano persone normali, criptiche, introverse, come Filippo Turetta. Diversi invece sono i soggetti con aggressività manifesta, già fuori controllo. Non dimentichiamo che molti di questi individui sono manipolativi, capaci di influenzare anche chi li giudica».

Del caso Cecchettin, cosa l’ha colpita di più sul piano umano?
«Sicuramente la personalità di Giulia. A volte si tende a idealizzare le vittime, ma lei era davvero la ragazza pura e candida che è stata descritta. Ricordo una frase della sorella: “Nessuna donna merita di morire, ma mia sorella lo meritava meno di tutte”».

Perché oggi tante donne non denunciano la violenza subita?
«I motivi sono molteplici. C’è la cosiddetta “impotenza appresa”: provano a liberarsi dal controllo ma falliscono, perché spesso l’aggressore le isola dai punti di riferimento. Poi c’è la mancanza di autonomia economica: il 37% delle donne italiane non ha un conto corrente, il 40% non dispone di indipendenza finanziaria. A questo si aggiunge la sfiducia: molte hanno denunciato e sono state lasciate sole, talvolta uccise. La verità è che viviamo ancora in una “cultura dell’emergenza”, dove si mettono toppe ma l’obiettivo di una reale tutela è lontano».

Come possiamo attivare un campanello d’allarme nella quotidianità per prevenire la violenza?
«Dobbiamo insegnare a riconoscere segnali apparentemente innocui che in realtà sono campanelli di rischio. Servono nuove consapevolezze per i giovani e non solo, perché le vittime non sono solo ragazze ma anche donne adulte, istruite, culturalmente attrezzate».

Grazie dottoressa per i suoi spunti su un tema tanto delicato.
«Grazie a voi. È fondamentale non restare in silenzio: cercare aiuto, confidarsi con qualcuno e, quando possibile, denunciare può fare la differenza».

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