L'intervista
09.12.2025 - 12:30
Serena Radicioli
In un pezzo di città con molte, solite, buche, rifiuti buttati qui e lì e troppo buio, dietro l’angolo, improvvisamente, ci si può muovere in quello che appare un piccolo, miracoloso, distretto delle arti. E’ un luogo dove gli esseri umani camminano piano e i gatti si sentono a casa, al lato della rotonda (del Piccarello) uno palazzotto privato svolge esattamente il ruolo del teatro pubblico con lo stabile e la scuola delle arti. Pochi metri e c’è un vero laboratorio di swing, giusto accanto a Factory 10, la galleria studio-fotografico che, se qui non fosse l’immediata periferia di Latina, parrebbe uscita da un quartiere rigenerato di Milano o di Berlino. Dal 29 novembre ospita una mostra dura come l’acciaio, romantica com’è l’amore filiale, complessa e innovativa come sanno essere le opere dei giovani. Si chiama «Non sei più tornato», progetto di Serena Radicioli, fotografa e artista visiva, 28 anni, di Latina, figlia di Alessandro Radicioli, ucciso a ottobre 2012 in un distributore di carburante di Sezze Scalo nell’ambito di quello che la sentenza ha definito un regolamento legato al traffico di droga.
Il pomeriggio dell’inaugurazione, alcuni giorni fa, l’autrice della mostra ha spiegato che il progetto è nato in ambito accademico perché ha «sentito il bisogno di raccontare qualcosa che rappresentasse degli spunti». La mostra è frutto di un lavoro lungo, durato quasi tre anni, ed ha riscosso successo sia in Italia che all’estero. Ma portarla a Latina è stato diverso per molteplici aspetti. Gli scatti di Serena Radicioli sono inseriti in un’idea contemporanea della fotografia, ci sono alcune immagini di famiglia e altre, riprodotte, dell’agguato di Sezze; l’incipit spiega il punto di vista di partenza: Alessandro Radicioli, l’uomo che ha animato le cronache giudiziarie con la sua biografia, che è stata parte integrante di quanto scandagliato nel processo, per l’autrice di questa mostra era soltanto il papà che un giorno non è più tornato a casa. E ora racconta, un po’, come è andata questa vicenda molto personale eppure tanto collettiva.
Quando è nata l’idea di fare una mostra fotografica che contenesse la sua biografia?
«L’idea è nata prima di tutto dal desiderio di costruire un progetto fotografico. La mostra è arrivata dopo, quasi naturalmente: non come un fine, ma come un modo giusto per far respirare il lavoro fuori da me, per offrirgli uno spazio dove potesse incontrare gli altri».
Una delle foto più «forti» ritrae un cavalcavia in mezzo al nulla. Perché l’ha messa?
«Il cavalcavia è una delle prime immagini che ho realizzato per questo lavoro. È un paesaggio emotivo: un luogo della mia memoria, che frequentavo con mio padre. L’ho inserita perché porta con sé quella stratificazione ambigua che cercavo. Per me è un simbolo di passaggio, di sospensione, un punto in cui le storie si incrociano. E, allo stesso tempo, è un’immagine che parla anche oltre la mia vicenda personale: un riferimento collettivo, quasi archetipico, che molti riconoscono senza bisogno di spiegazioni».
Quanto è importante esporre a Latina, la sua città?
«Per me vale più di qualsiasi altra esposizione che abbia fatto finora, e forse più di molte che farò in futuro. Sono nata e cresciuta qui, certo, ma non è solo una questione di radici. È che, per la prima volta, ho portato alla città una storia che in molti conoscevano già, ma che forse non era mai stata raccontata davvero. L’ho restituita senza giudizi, così com’è: autentica, fragile, complessa. E farlo proprio a Latina, davanti agli occhi che hanno incrociato quella storia nel corso degli anni, ha un peso enorme. È come chiudere un cerchio e, allo stesso tempo, aprirne uno nuovo».
Che effetto fanno i molti riconoscimenti anche internazionali che sta ricevendo?
«I premi, certo, fanno piacere: sono uno stimolo a continuare a crescere e a fare meglio. Ma più che di premi, un’autrice avrebbe bisogno di veri riconoscimenti, nel senso profondo della parola. Abbiamo bisogno, soprattutto noi giovani, che il lavoro venga visto, ascoltato, compreso dentro un sistema culturale capace di sostenere la ricerca, non solo di celebrarne i momenti più luminosi. Personalmente, ho capito che ricevere un premio non mi fa sentire speciale. Tutte le persone, famiglia e amici, che ogni volta seguono e sostengono il mio lavoro, quello si che mi fa sentire speciale».
Ha già in mente il suo prossimo lavoro?
«Sì. Da gennaio inizierò a lavorarci. Sto approfondendo temi che non sono lontani dalla mia ricerca fotografica e dai miei interessi, ma che aprono comunque nuove direzioni da esplorare».
Suo padre se dovesse descriverlo con poche parole…
«Mio padre era, prima di tutto, un uomo, che ha compiuto scelte discutibili. Ridurre una persona a poche parole è sempre un impoverimento: siamo tutti troppo stratificati per stare in una definizione. Lui era molte cose insieme e proprio per questo, non può essere raccontato in “poche parole”».
Questa mostra è l’elaborazione del lutto?
«L’elaborazione del lutto é un processo lungo. Non ha una fine, ma inizia quando decidi di darti del tempo per attraversare un dolore ed accettare delle cose difficili».
Pensa che questo lavoro potrà contribuire alla elaborazione collettiva di quegli anni e se è arrivato il momento, per la città, di guardare anche a ciò che è stata in quel periodo?
«Credo che questo lavoro possa dare un contributo, sì. Non ha la pretesa di spiegare o di risolvere nulla: io offro uno spazio, ma per entrarci serve coraggio, e non è detto che tutti vogliano farlo. Quello che posso fare è aprire uno spiraglio: uno sguardo più umano su quegli anni, meno schiacciato dai racconti ripetuti o dalle semplificazioni che ci siamo portati dietro. E forse sì, è arrivato il momento per la città di guardare anche a ciò che è stata davvero in quel periodo. Non per riaprire ferite, né tanto meno questioni, ma per riconoscerne la complessità, per smettere di mettere ai margini ciò che ci ha formati. La fotografia, quando fa il suo mestiere, non offre risposte: apre possibilità. Se questo lavoro ne apre anche solo una, allora vale già tutto».
La mostra si tiene presso Factory 10, uno spazio di idee, confronto, proposte tutto gestito da trentenni, ciò ha inciso sulla decisione di mettere lì questi suo lavoro?
«Sì, ha inciso in senso positivo. Conoscevo Factory 10, ma non da così vicino. Quando Matteo, presidente dell’associazione, mi ha chiamata per la mostra, entrambi sapevamo che questo progetto, esposto a Latina, avrebbe avuto un peso diverso, un’eco particolare. E proprio per questo l’abbiamo costruito insieme: loro mi hanno accompagnata con umanità, con attenzione, senza forzare nulla. È uno spazio giovane, vivo, dove le persone possono entrare e mettersi in discussione, non ha paura della profondità, forse anche per questo mi è sembrato il luogo giusto per il mio lavoro».
Dovesse partire domani per un viaggio fotografico, dove andrebbe?
«Ovunque. Mi interessa scattare e dare forma ad un’idea, non il luogo in sé».
Quando ha scattato la sua prima foto?
«Non ricordo esattamente. Ho ricevuto la mia prima macchina fotografica a 13 anni. Più avanti, con gli studi, ho iniziato a fotografare con un’intenzione più consapevole».
La mostra riporta in una delle prime immagini il passaggio di un articolo di Latina Oggi. Questo: «La sera del 29 ottobre due gruppi criminali si diedero appuntamento per un regolamento di conti finito male, probabilmente dovuto ad un debito».
«Non sei più tornato» è un progetto di tesi con cui Serena Radicioli ha vinto nel 2023 il Premio per le arti di Castelfiorentino e il Premio Musa, classificandosi finalista nel 2024 al Festival Arturo Ghergo sezione Giovane Talento. Ha partecipato a diverse mostre, tra cui il festival Der Verzicht 2024 a Verona e la Biennale di Fotografia Femminile di Mantova, ottenendo inoltre diverse pubblicazioni, anche internazionali, presso il quotidiano francese ‘Libération’. Dal 20 novembre al 18 dicembre è presente alla mostra «Fragile / Frammenti» a Beirut organizzata dall’Istituto italiano di cultura di Beirut.
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