Muhammad Ali, l'uomo della libertà
05.06.2016 - 13:04
Mio padre è sempre stato una persona posata, composta, signorile, calmo nei movimenti, giacca, cravatta e paltò anni '60. Dell'impiegato statale di concetto aveva tutto, dell'uomo d'azione nulla. Eppure… eppure la sera del 4 di marzo del 1971 mio padre, chiuso insieme a me nella camera più ampia della casa, ballava.
Anzi danzava sulle punte dei piedi lasciando scattare nell'aria rudimentali jab per rassicurarmi sul fatto che di lì a poche ore Cassius Clay, o meglio Muhammad Ali, che sul ring volava come una farfalla e pungeva come un'ape, avrebbe sicuramente vinto.
Beh, si sbagliò.
Quella notte là tutti i miei timori di piccolo fan si fecero certezza, perché Joe Smoking Frazier - Smoking non era un tabagista, bensì faceva fumare qualsiasi cosa colpisse con il suo pugno - lo batté ai punti dopo quindici estenuanti riprese.
Ecco, qualsiasi giornalista sportivo, all'indomani della morte di Cassius Clay Muhammad Ali, scriverebbe di questo incontro e di una decina di altri per ricordare al mondo intero, o comunque solo ai lettori di provincia, che il defunto era stato davvero il “Più Grande” pugile di tutti i tempi.
L'articolo partirebbe senza dubbio dall'oro olimpico conquistato a soli diciotto anni d'età, nel 1960 a Roma, e probabilmente terminerebbe con l'ultima riconquista del titolo mondiale. In mezzo, sempre il cronista in questione, scriverebbe delle epiche sfide contro i giganti che calcarono i ring in quei quindici anni in cui il nostro super-eroe conquistò per ben tre volte la corona mondiale dei pesi massimi.
Ci parlerebbe degli scontri sul filo della morte, nel vero senso del termine, con Joe Frazier e Ken Norton, il futuro Mandingo del cinema: sconfitta, vittoria e poi bella sempre a favore di Alì. Quindi impiegherebbe un bel po' d'inchiostro per tratteggiare la valenza pugilistica di altri campioni da lui sconfitti, come Karl Mildenberger, Archie Moore la Mangusta, Henry Cooper il Martello, Floyd Patterson, George Chuvalo, Cleveland Williams, Ernie Terrell, Zora Folley, Jerry Quarry, Oscar Ringo Bonavena, Jimmy Ellis, Buster Mathis, Al Blue Lewis, Bob Foster, Joe Bugner, Ron Lyle, Jimmy Young, Alfredo Evangelista e Chuck Wepner, il resistentissimo colosso a cui si ispirò Sylvester Stallone per la figura di Rocky Balboa. Nomi, questi, che ai più non diranno forse nulla o quasi, ma che per ogni appassionato vero di boxe significano davvero molto. Infine, stando bene accorti a non citare la vittoria dubbia su Ernie Shivers, le due probabilmente combinate contro Sonny Orso Liston, un Tyson ante litteram, e le sconfitte meno onorevoli subite dall'olimpionico Leon Spinks, da Trevor Berbick, comunque avvenuta a pochi giorni dal compimento dei quaranta anni d'età, e dall'allievo di una vita Larry Holmes, che poi diventerà un autentico fuoriclasse del quadrato, le penne sportive di tutti i giornali concentreranno i loro ultimi sforzi sulla Notte di Kinshasa, prova lampante e indiscutibile del fatto che con Muhammad Ali sul ring la disciplina più nobile era diventata veramente arte sopraffina: la combinazione dei quattro pugni che il 30 ottobre del 1974 mandarono al tappeto George Foreman, dato favoritissimo da tutti gli allibratori, venne realmente paragonata alle migliori pennellate di Michelangelo. Fu in sintesi l'esempio massimo di come l'intelligenza possa arrivare a battere la forza bruta, e così Cassius Clay Muhammad Ali raggiunse l'olimpo degli dei senza mai ridiscendere giù, tra noi mortali.
All'incirca questo scriverebbe un reporter sportivo nel suo elogio funebre, magari facendo finire il pezzo con l'immagine commovente di un Ali, dallo sguardo spento e tremante per il Parkinson, che accende il braciere per dare il via ai Giochi Olimpici di Atlanta nel 1996.
Ma si sbaglierebbe.
La lingua più impertinente e sfrontata di Louisville non fu il più grande pugile che abbia mai calcato un ring, e un qualsiasi cultore o esperto di boxe potrebbe stilare un elenco di pugilatori altrettanto grandi, se non persino immensi, da riempire mezza pagina di un libro. Cassius Clay Muhammad Ali, nel 1967, si rifiutò di partire per la guerra in Vietnam, benché non avrebbe certo rischiato il fronte, perché nessun vietcong gli aveva mai dato dello sporco negro come invece accadeva regolarmente in America. Una decisione, controcorrente e impopolare, che gli costò una condanna penale a cinque anni di detenzione, poi revocata, e una sportiva a tre anni di squalifica, invece scontata dal primo all'ultimo giorno, con conseguente revoca del titolo di campione del mondo. In linea col personaggio che si era costruito addosso - predicatore, arringafolle, politico di razza - accettò le conseguenze perché secondo lui la lotta per la liberazione degli afroamericani dalla schiavitù era evidentemente più importante di una prolungata inattività, peraltro giunta nel periodo più delicato per un atleta professionista: quello focale della crescita; quello che, se interrotto, di solito compromette la carriera.
Se Barack Obama è diventato Presidente degli Stati Uniti è perché, prima di lui, ci sono stati Malcom X, Martin Luther King e Muhammad Ali, uno che non si è mai vergognato della propria negritudine.
Da bambino, anche dopo la sconfitta del 4 marzo 1971 per mano di Joe Frazier, se qualcuno m'avesse chiesto cosa sarei voluto diventare da grande non gli avrei risposto né un poliziotto né un cosmonauta, né un calciatore né tanto meno un pugile. Gli avrei risposto Cassius Clay.
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