Personaggi
27.10.2024 - 14:00
Era il 2021 quando in piazzetta Nicolosi divenne la sede della mostra itinerante di Gianluca Costantini, con i disegni dei volti di 50 donne e uomini, prigionieri di coscienza in 19 differenti paesi. Tra loro c’era Patrick Zaki, un’immagine diventata simbolo della mobilitazione per la liberazione del giovane attivista egiziano che qui in Italia, a Bologna, aveva trovato casa. Quella stessa immagine era fissa nella biblioteca della facoltà di economia della sede de La Sapienza di Latina. Venerdì sera Patrik Zaki c’era davvero a Latina, nella sala del Mug, il Museo Giannini, piena anche di ragazzi e ragazze. Questo incontro è frutto dell’impegno del Gruppo Giovani Amnesty di Latina, nato nel 2019 su iniziativa di un gruppo di studenti liceali che volevano attivarsi nel campo dei diritti umani che negli anni hanno organizzati tanti eventi di sensibilizzazione per supportare le campagne che Amnesty porta avanti a livello globale. L’evento organizzato con Patrick Zaki si inserisce sia all’interno della cornice di Io Mi Attivo, un momento in cui i gruppi Amnesty italiani si impegnano per spingere le altre persone ad attivarsi nel campo dei diritti umani, sia all’interno della campagna “Write for rights”, durante la quale vengono raccolte firme a supporto di cinque attivisti e attiviste che hanno visto i propri diritti violati da qualche parte nel mondo. L’incontro con Patrick parte da “Sogni e illusioni di libertà. La mia storia”, in cui l’attivista racconta la sua storia. Dall’arresto al passaggio per 4 diverse prigioni, al fatto che, per sua stessa ammissione, la vicenda di Giulio Regeni avesse attivato una sorta di “lente” sulla vicenda che lo vedeva protagonista. Possibile che due giovani ricercatori che si occupavano di diritti umani fossero finiti entrambi nelle maglie del regime di al Sisi. L’impegno di Amnesty è stato per lui uno scudo, qualcosa che gli ha evitato torture ben peggiori. Stupisce il racconto della sua liberazione: portato in caserma viene lasciato libero di andare. Tra stupore e paura, Patrick viene accolto dal mondo fuori. Ora vive a Bologna, ha terminato il suo dottorato alla Normale di Pisa. È un uomo libero. Poco prima dell’incontro siamo riusciti ad avvicinarlo per fargli qualche domanda.
Patrick, quanto è importante raccontare la tua storia?
È molto importante per me essere qui a qui a Latina per la prima volta. È stato un grande piacere quando ho ricevuto l’invito a incontrare i giovaniqui e parlare con loro dei diritti umani, della situazione non solo in Egitto ma anche in tutti in tutto il mondo perché adesso ci troviamo in un momento molto critico. C’è una guerra in corso ed è davvero importante comprendere tutte le Forme di oppressione dei diritti umani che stanno avvenendo. Molte persone sono state uccise nell'ultimo anno, ma dovremmo parlare di come possiamo risolvere questo problema, di come possiamo raggiungere il cessate il fuoco. Inoltre, parlerò della mia esperienza all'interno della prigione. Parlerò di quanto sia dura la situazione dei diritti umani nel mio paese e di come possiamo lavorare per migliorare il situazione dei diritti umani non solo in Egitto ma anche in Italia e in tutto il mondo.
La libertà di stampa è sotto pressione in questo periodo secondo te?
Fare giornalismo oggi è è qualcosa di molto critico. Quando noistiamo parlando di libertà di stampa dovremmo sempre ricordare che ci sono 152 giornalisti che sono stati uccisi a Gaza. Abbiamo visto il governo israeliano con i giornalisti di Al Jazeera definiti “terroristi”. La libertà di parola a livello internazionale è in una situazione molto critica, lo vediamo anche in Italia, pensiamo all’attacco contro FanPage, un tipo di censura che non è utile per la democrazia Molti giornalisti sono stati sottoposti a censura ed ora è importante la presenza di giornali indipendenti, gli account dei social media che possono dirci la verità dietro a quello che sta succedendo nel mondo, non solo in Palestina. Pochi mesi di guerra, abbiamo visto come l’uccisione sistematica di civili, bambini, donne spesso non venga raccontata e il giornalismo istituzionale tende a normalizzare l’uccisione dei palestinesi ed è il punto più basso che il giornalismo possa raggiungere.
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