Calcio, l'intervista
13.02.2025 - 17:00
Andrea Carnevale
Aveva soltanto 13 anni quando il padre, Gaetano, uccise la madre Filomena, prima di togliersi la vita, alcuni anni dopo, proprio davanti a lui. L’infanzia del “nostro” Andrea Carnevale è un qualcosa che già, messa in questo modo, fa venire i brividi. Figuriamoci in un ragazzo costretto a “nascondersi” da tutto e tutti, in un paese piccolo come Monte San Biagio... “che però, credetemi, non finirò mai di ringraziare. Capì il dramma, lo ‘ingoiò’ insieme a noi e ci stette vicino».
Cinquant’anni dopo hai deciso di raccontare e rendere pubblico tutto attraverso un libro: perché?
«Ne sentivo il bisogno, era arrivato il momento di vuotare un sacco che per tanti, troppi anni, mi sono portato dietro. Finalmente mi sento un uomo libero».
Andrea Carnevale 2.0 o qualcosa di simile.
«Ho voluto raccontare la mia tragedia che avevo tenuta segreta provando a cancellarla con le gioie che
mi regalava il calcio. La mia seconda vita, per questo, sarà più bella, di questo ne sono pienamente convinto».
Tanti anni trascorsi a rincorrere il pallone come fosse una sorta di libertà.
«Ho provato a soffocare la tristezza, cercando di non pensare. Il calcio mi ha aiutato, le mie sorelle sono state meravigliose, ma soltanto oggi mi sento un uomo finalmente diverso, ripeto libero».
Stagione ‘78-‘79, Latina gestione Lamberto Leonardi, avevi soltanto 17 anni. Eppure...
«Petrella, uno dei veterani di quella squadra, di recente mi ha confidato una cosa che mi ha fatto molto piacere. All’epoca l’allenatore, il grande Lamberto Leonardi, chiese a tutti i giocatori di starmi vicino, raccontando loro che avevo vissuto un dramma e che il calcio, lo stare lì, giocare in serie C, mi avrebbe aiutato. Chiese altresì ai presidenti, Pasquale Papa e Franco Bassoli, di non prendere altri attaccanti, parlando di me come di un giovane che avrebbe fatto sicuramente bene, regalando tante soddisfazioni alla piazza. Giocai 23 partite, segnando tre gol. Latina e il Latina furono molto più che un semplice trampolino di lancio».
Hai giocato a grandi livelli, sei stato il compagno di squadra, tanto per citare un nome, di Diego Armando Maradona: un amico, un fratello. Non hai mai pensato di raccontare, proprio a lui che come te veniva dalla povertà più assoluta, questo tuo dramma?
«No, mai. La vergogna, credo più di ogni altra cosa, ha sempre preso il sopravvento, poi magari lui, come altri, sapevano già tutto. Giocavo a calcio e cercavo di non pensare. Lo stare bene, la felicità delle vittorie, il mondo che avevo sempre desiderato, erano una sorta di ‘confort zone’. Oggi mi rendo conto che, in effetti, non era così. Oggi sono un uomo diverso, pronto a scrivere altre pagine, sicuramente più belle, della mia vita».
Intanto a Coverciano sei diventato Direttore Sportivo a tutti gli effetti.
«Anche questo passaggio fa parte del processo di crescita che ho deciso di intraprendere nel momento in cui ho deciso di liberarmi del mio dramma adolescenziale. Oggi sono il testimonial di ‘Telefono Donna’ e ne vado fiero. Oggi sorrido alla vita, apprezzando ogni cosa. L’Udinese (ricopre il ruolo di capo scout da tantissimi anni, ndr) è la mia famiglia, così come lo sono mia moglie (la seconda, ndr) Beatrice e mia figlia Arianna.
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