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Il fatto

Minacce sui social e provocazioni agli agenti di scorta, così si è tradito Zuppardo

Le accuse che gli sono costate la protezione e i benefici: un caso di istigazione al suicidio con le dirette web, si è associato a pregiudicati e atteggiamenti ostili verso la polizia

Minacce sui social e provocazioni agli agenti di scorta, così si è tradito Zuppardo

Lo aveva annunciato alcuni giorni fa attraverso una delle tante discutibili dirette “live” sul social network Tik Tok, ma ora è ufficiale perché ne ha fatto menzione durante l’udienza celebrata ieri mattina davanti al collegio dei giudici del Tribunale di Latina nell’ambito del processo “Reset” nel quale figura tra i testimoni della pubblica accusa contro il gruppo criminale dei fratelli Travali e lo zio Costantino “Cha Cha” Di Silvio: Maurizio Zuppardo, latinense di 45 anni, non è più un collaboratore di giustizia, è stato estromesso dal programma di protezione e per questo gli sono stati revocati i benefici di legge come la protezione e il sostentamento economico. Restano però le testimonianze che ha reso davanti ai magistrati della Dda, che sarà chiamato a confermare ogni qual volta ce ne sarà bisogno.
Stando a quanto ha dichiarato pubblicamente Zuppardo, la Giustizia gli ha presentato il benservito dopo averlo indagato per una serie di episodi censurabili. Lunedì mattina gli investigatori della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo gli avrebbero notificato un avviso di garanzia per un caso di istigazione al suicidio di una donna, consumato con altri soggetti noti alle forze dell’ordine, proferendo minacce, ovvero per fatti consumati in concorso con questi soggetti proprio attraverso una serie di dirette sul social network. Più in generale il Nucleo interforze di Protezione dei testimoni e dei collaboratori di giustizia che monitora le persone sottoposte a protezione, ha documentato che Zuppardo si è associato, anche se attraverso piattaforme internet, con pregiudicati e altri collaboratori di giustizia, quindi contravvenendo alle prescrizioni che gli sono state imposte. Oltretutto gli viene contestato di avere adottato atteggiamenti ostili e provocatori nei confronti degli agenti di scorta che lo accompagnano quando deve lasciare la località protetta per raggiungere le aule di giustizia, ma anche per avere inveito contro il personale della polizia.
In realtà questo è solo il punto più basso di una parabola discendente che sembra segnare il declino del fenomeno del pentitismo nella giustizia pontina. Dopo essere stato convinto a passare dalla parte dello Stato grazie all’opera di investigatori capaci, Maurizio Zuppardo è stato gestito in maniera inadeguata da alcuni investigatori della Questura, nel periodo in cui la Squadra Mobile aveva vissuto un declino della sua dirigenza, una stagnazione dalla quale gli uffici della polizia giudiziaria stanno cercando di risollevarsi con grande fatica. Ne è venuta fuori una collaborazione discutibile, alla quale sono seguiti i comportamenti istrionici di Zuppardo: non è ancora chiaro quale sia l’apporto che ha fornito al lavoro degli inquirenti, fatto sta che ha fallito più di un banco di prova, avventurandosi nel terreno minato delle accuse rivolte ai carabinieri dei quali sostiene di essere stato un informatore ripagato con una parte della droga sequestrata. Non solo non c’è prova di quelle accuse, ma i suoi racconti sono smentiti dalle circostanze di quelle operazioni e soprattutto lui stesso sta fallendo sotto il peso del tempo che trascorre, avendo perso il controllo di sé più di una volta durante le udienze, fino a tradire il proprio livore nei confronti di alcuni appartenenti alle forze di polizia.
Al tempo stesso la Procura pontina è stata poco cauta nel processo di valutazione, arrivando a calcare la mano fin troppo utilizzando le rivelazioni dubbie di Zuppardo. Giusto due anni fa, quando il giudice per le indagini preliminari, non credendo alla veridicità del collaboratore di giustizia, negò l’applicazione delle misure cautelari proprio a carico dei carabinieri, proprio la Procura avvertì l’esigenza di sottolineare che il pentito veniva considerato attendibile.

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