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Bruxelles 1985-2025

Angoscia, vuoto, destino. Heysel

Il racconto di chi 40 anni fa era nello stadio dove prima della finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool accadde la più atroce tragedia sportiva

Bruxelles. Il 29 maggio del 1985 è un mercoledì. La Juventus affronta il Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni allo Stadio Heysel. La partita è fissata alle 20, 15. Inizierà quasi due ore dopo perchè si consuma la più crudele tragedia sportiva di sempre. E’ una morte in diretta. Oggi sono 40 anni. Quel pomeriggio a Bruxelles c’erano un drappello di ragazzi partiti da Latina: Paolo, Massimo, Virginio, Renzo, Gaetano, Pier Giorgio, Peppe. Sognano di vedere la Juve con la Coppa che non ha mai vinto, sfumata una volta con l’Ajax nel 1973 e due anni prima ad Atene contro l’Amburgo. Sembra una maledizione.
Per ognuno di loro la parola Heysel ha assunto un significato diverso come per chi quel pomeriggio era lì, a Bruxelles, in Curva Zeta. «Angoscia» è la prima parola che viene in mente a Giuseppe, Peppe Di Nardo. Oggi ha 70 anni, è avvocato, è di Latina, vive ad Anzio. «La Curva Zeta era divisa in due settori, una parte era per i belgi - è l’inizio del suo racconto - e l’altra per gli inglesi dove c’erano gli hooligans, ma i belgi avevano venduto i biglietti agli italiani. La struttura era fatiscente e antica, all’ingresso c’era il bigliettaio come i vecchi cinema di una volta». Lo Stadio non era all’altezza, impreparato per ospitare una partita così importante, senza la minima misura di sicurezza. «Eravamo ammassati e a dividerci dagli inglesi c’era un divisorio da campagna, quello che si usa per le galline, una rete da pollaio - racconta - si sono scatenati gli inglesi e hanno buttato giù la rete e hanno fatto la carica verso di noi. C’erano bambini, famiglie. Io mi sono accucciato dietro ad un uomo belga alto due metri. Nella calca ho perso i mocassini, rimasi senza scarpe, mi sono rifugiato in campo e ho visto che la porta per accedere in tribuna stampa era aperta e andai lì». I ricordi sono immagini terrificanti. «Coprivano i corpi con i cartoni, mi veniva da piangere, poi ad un certo punto mi sono sentito bussare alle spalle ed era Gaetano Marino, faceva parte della nostra comitiva di Latina. Ero sollevato perchè avevo ritrovato i miei amici. Quella notte l’ho rimossa».
Gaetano Marino è avvocato, è di Latina, aveva 29 anni nel 1985. Era stato anche ad Atene, l’anno prima a Basilea nella finale della Coppa delle Coppe. Aveva visto diverse finali della Juve.
Sospira. «Cerco di non pensarci a quella notte, perchè è meglio e quando mi mettono in difficoltà sotto il lato sportivo - osserva - dico una cosa: non ho paura di niente, ho visto la morte in faccia. Dopo l’Heysel, i primi mesi mi dava fastidio stare nelle feste patronali, mi dava fastidio la folla, poi mi è passato tutto ma senza l’ausilio di psicologi». Le immagini sono ancora forti, scioccanti nella mente. «La cosa più traumatica è stata scendere i gradini dello Stadio e vedere i morti. E’ stato terribile - aggiunge - vidi la rete metallica che andò giù tutta insieme e ci fu questa aggressione, è questo il film che ho nella mente». Ogni istante viene ricordato nel dettaglio: «Avevo un giubbotto della Navigare in mano, quel giubbotto non mi cadde mai. Rimasi sempre lucido, c’era un bambino che si attaccò ai miei jeans per la paura, gli hooligans aggredivano con i coltelli, avanzavano, due agenti che definirei eroici tentarono di fermare questa ondata in curva Zeta. Ho visto gente accoltellata e fui fortunato».
Nel suo vocabolario personale la parola Hesyel equivale a vuoto, è questa la traduzione: «La sensazione di vuoto, sì - ripete - è proprio così. Se uno ci pensa non hanno mai più trasmesso in televisione quella partita».
Nello stesso gruppo per vedere la Juve c’era Pier Giorgio Avvisati, di Latina, aveva 29 anni, da poche settimane si era sposato. E’ avvocato anche lui. «Destino»: questo è per lui il significato della parola Heysel e richiama un proverbio arabo. «Quel giorno il cielo era color smeraldo e le nuvole si rincorrevano formando immagini strane. La sera prima della partita eravamo in centro nella Grand- Place invasa dagli hooligans, volavano sedie, tavolini - spiega - si vedeva che si erano impadroniti della parte storica della città. Ero insieme al mio amico Pino Veronese che ora non c’è più. L’impressione che ho avuto arrivati allo Stadio era di un impianto inadeguato: avevamo il biglietto della Curva Zeta e quando stavamo per entrare si presenta un bagarino italiano con un accento del sud che mi mette sotto il naso due biglietti e ci dice “Per 5mila lire in più” dell’epoca, andate in tribuna. Guardo Pino Veronese e alla fine decidiamo di non andare in Curva Zeta dove poi crollò il muro e ci sono stati i morti ma andammo nella tribuna di fronte. Ho visto tutto in diretta, gli inglesi che spingono, gli italiani confinati e spinti verso il muro. Dissi al mio amico di andare via e siamo usciti, non abbiamo visto la partita perchè si riteneva che non si giocasse, usciamo, prendiamo la metropolitana e andiamo in albergo: avvertiamo le famiglie che stiamo bene, ci preoccupiamo per i nostri amici che poi rivediamo. C’eravamo tutti fortunatamente».
Pier Giorgio quando è tornato a casa per 15 giorni aveva paura di andare a dormire: «Chiudevo gli occhi e rivedevo quelle immagini». L’ombra dell’Heysel lo ha rincorso, quasi a fare da macabra compagnia. «Mi è rimasto quell’attimo di panico quando esco dal cinema o da uno stadio. E’ un attimo. E poi ripenso a tante cose. Il primo sabato di giugno del 1985 andai ad Arezzo alla Fiera dell’Antiquariato, c’è una chiesa lì vicino e ci sono i funerali di un uomo morto all’Heysel, era un medico. E poi quando ero nell’organismo nazionale degli avvocati e presiedevo una Commissione, c’era una collega di Perugia e scopro che il padre era stato l’avvocato dei familiari morti a Bruxelles». L’Heysel è una ferita profonda 40 anni, oppure è la forma di un pallone che ruzzola. C’è quel proverbio arabo che Pier Giorgio Avvisati ricorda: «Il destino ti aspetta sulla strada che hai scelto per evitarlo».

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