Il fatto
25.10.2025 - 10:24
Seguendo la strada indicata dalla Suprema Corte di Cassazione che aveva annullato la precedente pronuncia di secondo grado, venerdì 24 ottobre i giudici della Quarta sezione della Corte d’Appello di Roma hanno letteralmente smontato la principale ipotesi accusatoria dell’inchiesta Scarface, l’operazione dell’ottobre 2021 con la quale la Direzione Distrettuale Antimafia aveva configurato l’associazione per delinquere di stampo mafioso, finalizzata al narcotraffico, attorno alla famiglia del clan Di Silvio capeggiata da Giuseppe detto Romolo, tuttora detenuto per l’omicidio di Fabio Buonamano del gennaio 2010.
Il processo era quello incardinato per gli imputati che avevano scelto di essere giudicati con rito abbreviato, a partire dai personaggi di vertice della famiglia, assolti non solo dall’accusa di essere un’associazione per delinquere dedita al traffico di droga con metodo mafioso, ma anche di essersi riuniti in un’associazione semplice, reato per il quale il procuratore generale aveva chiesto di pronunciare la sentenza di colpevolezza, derubricando l’accusa iniziale più grave. La decisione della Corte di Appello di Roma ha prodotto ulteriori sconti sulle pene determinate dal giudice per l’udienza preliminare, anche rispetto alle riduzioni applicate in occasione della prima sentenza d’Appello poi annullata dalla Corte di Cassazione.
Riconoscendo quindi episodi di spaccio svincolati dal reato associativo e di casi di estorsione, i giudici della Quarta sezione hanno rideterminato così le pene: sei anni di reclusione per Giuseppe Di Silvio detto Romolo, quattro per il fratello Carmine, cinque anni e quattro mesi per il fratello Costantino detto zio Costanzo. Cinque anni e mezzo invece per Antonio Di Silvio detto Patatino e cinque anni, otto mesi e venti giorni per il fratello Ferdinando detto Prosciutto, entrambi figli di Romolo. Cinque anni e dieci mesi invece per Fabio Di Stefano, genero di Romolo. Due anni e mezzo di reclusione infine per Michele Petillo, di recente arrestato insieme al suocero per le tre pistole e oltre 260 munizioni di provenienza illecita. Assolti invece Anna Di Silvio, moglie di Costantino detto Costanzo, dall’accusa di estorsione ai danni del gestore di una frutteria, e Alessandro Di Stefano assolto insieme al fratello Fabio dall’accusa di estorsione ai danni di un ristoratore del litorale.
Ha prevalso quindi la linea sostenuta dalla difesa degli imputati, rappresentata dagli avvocati Maurizio Forte, Oreste Palmieri, Luca Amedeo Melegari, Alessandro Diddi, Alessia Vita, Alessandro Paletta, Angela Campilongo e Antonino Castorina.
Non è bastato quindi l’apporto dei collaboratori di giustizia per contestare l’associazione per delinquere finalizzata al traffico degli stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso per la famiglia, del clan Di Silvio, che avevano costruito la propria roccaforte tra le “torri gemelle” delle case popolari di via Pionieri della Bonifica, zona periferia di Campo Boario, e via Moncenisio, nel vicino quartiere Gionchetto. Alle dichiarazioni dei pentiti Renato Pugliese e Agostino Riccardo si erano aggiunte persino quelle di Emilio Pietrobono, che aveva lavorato come spacciatore proprio al servizio dei Di Silvio e aveva ricostruito i ruoli del sodalizio. Il frutto della visione poco lungimirante che ha caratterizzato il metodo investigativo con cui l’allora dirigente Giuseppe Pontecorvo ha guidato la Squadra Mobile della Questura di Latina.
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